Quel che resta di Firenze

Il bilancio di un delegato: un Convegno con meno «pretese». Ma forse è proprio questa la strada per cominciare a cambiare davvero
24 Novembre 2015

Vivere il Convegno Nazionale Ecclesiale a Firenze è stata un grande emozione, non solo per lo stile semplice e fraterno delle relazioni vissute, specie con la mia delegazione diocesana e gli amici del mio tavolo N1. Ho potuto in effetti toccare con mano quanto sia importante il confronto ecclesiale. Qualcuno mi dirà: “A Firenze abbiamo ascoltato le stesse cose di Verona o Palermo”. Beh, non c’ero e non potrei giudicare. Tuttavia mi è possibile condividere ciò che ho vissuto e ciò che mi porto a casa.
Innanzitutto ho vissuto da delegato alcune sensazioni molto forti.
La prima è stata la grande emozione della Cattedrale di Santa Maria in Fiore durante il discorso del Papa, interrotto da quasi trenta applausi. Francesco ha dato alla Chiesa italiana tre consegne: umiltà, disinteresse e letizia. L’ha anche messa in guardia da due pericoli: pelagianesimo e giansenismo. Un discorso all’altezza delle nostre aspettative.
L’altra sensazione è stata quella di un clima “senza pretese”. Molti di noi avevano i piedi ben piantati in terra. Il convegno è stato un momento importante di passaggio. Tutti ne siamo stati consapevoli, ma tutti sapevano che non doveva e poteva essere risolutivo. Ci aspettavamo l’indicazione di una strada e così è stato. Un esito importante. In questo senso è stato un Convegno molto “a misura” d’uomo.
Infine l’ultima sensazione colta è stata quella di toccare la volontà di tutti di essere costruttivi, impegnandosi a far riuscire il Convegno. Nessuno ha voluto prevalere –- parlo almeno per le discussioni a cui ho partecipato – e tutti volevano con-dividere e confrontarsi sinceramente.
Dal punto di vista strettamente ecclesiale, guardando alle relazioni di Nosiglia e Galantino, appare evidente che l’intento era quello di acquisire un metodo ed uno stile, quello che abbiamo chiamato sinodalità.
In effetti quello che si è respirato nei gruppi è stato proprio questo: un voler camminare insieme laici con presbiteri, presbiteri con presbiteri, laici con laici. Ad esempio nel mio tavolo c’era un vescovo, un sacerdote, una suora, due membri di Cl, due dell’Ac e persone impegnate nel sociale con progetti di affido e case famiglia. E’ un aspetto che ho messo a fuoco anche dopo nell’ultimo incontro MEIC in diocesi. In effetti sinodalità non è solo camminare insieme laici e presbiteri, ma anche che camminino insieme tra laici oppure tra sacerdoti. In questo senso occorre superare le reciproche “indifferenze” dell’uno rispetto all’altro.
Il clima respirato ha quindi dimostrato che con impegno e cura, è possibile raggiungere un frutto di reale condivisione. Mi si dirà che il convegno ha prodotto una marea di chiacchiere e di carta. È vero. Anche io fatico oggi ad orientarmi tra tutte le relazioni. Tuttavia tutti ce ne siamo andati con la decisiva sensazione che tra quelle chiacchiere e quella carta c’è un pezzetto a cui anche noi abbiamo contribuito. È una conquista di non poco conto! Infatti partecipare ai processi di analisi e sintesi è uno dei paradigmi più importanti del sentire attuale. La Chiesa Italiana a Firenze, mettendo 2200 persone a discutere in tavoli da 10, ha dimostrato di saperlo fare, facendosi esempio e paradigma per tanti.
Sarà difficile dopo Firenze, affermare nella concretezza pastorale delle nostre comunità che queste modalità “partecipative” non sono possibili. Ormai penso che a Firenze un dato sia stato acquisito.
Quanto infine al concreto della mia via, ero nel gruppo Abitare.
Abbiamo discusso di alcune cose che poi sono tornate nelle relazioni finali. Ne estrapolo alcune che sono di mio maggior interesse. Innanzitutto è emerso che abitare vuol dire stare nelle relazioni e conoscere il proprio territorio. Abitare significa non sentirsi “i padroni” del mondo. Abitare è anche accogliere le diversità. Abitare è infine accompagnare.
Un verbo quest’ultimo che si declina anche nell’accompagnamento di quelle “povertà per noi inaspettate”, come quelle di chi si impegna in politica o nel campo produttivo come gli imprenditori. Sono realtà a cui spesso chiediamo cose, ma che non accompagniamo come comunità ecclesiale con vicinanza fraterna e stile amicale.
Tra tante cose è emersa anche l’indicazione di una concreta prassi, quella della trasparenza. Così la relazione finale del mio gruppo “Come cristiani non dobbiamo sentirci padroni ma amministratori dei beni che abbiamo e dei luoghi che abitiamo e lo dobbiamo fare con uno stile di trasparenza”
È una riflessione che ha trovato eco anche nella sintesi finale del prof. Fabris: “Emerge la necessità di un impegno diffuso, di un cristianesimo vissuto a tutti i livelli e testimoniato quotidianamente, nella trasparenza dei comportamenti. Questo chiede anche un uso dei beni e di ciò che la Chiesa amministra secondo la radicalità evangelica”
Non mi soffermo oltre, anche perché in termini di proposte e dibattiti i documenti prodotti dal convegno ecclesiale di Firenze sono più che esaustivi. Voglio però concludere con due episodi che mi hanno dato da pensare. Un vescovo in una discussione ci fa: “Siamo costretti a ripetere cose che sono già scritte nei documenti e nei codici!” ed un altro vescovo fa: “Mi sembra di sentire le stesse cose di Verona e del Concilio!”.
Ci ho pensato molto a queste parole. Magari come qualcuno ha detto in plenaria, potremmo “sentirci allora inutili”. Il nostro sarebbe stato un “convenire” sterile. Penso invece che parlarsi, dirsi le cose, convincersi del sentire comune dei più sia un importante puntello all’azione pastorale che siamo chiamati a coltivare nelle nostre comunità. Adesso siamo tutti chiamati, laici religiosi e presbiteri ad attuare le indicazioni di Firenze,specie per un cammino di sinodalità e trasparenza, sempre più vicino alla vita della gente.
Allora la domanda che rivolgo a me stesso per prima e poi a tutti noi – Chiesa radicata nella mia Nazione, nella mia Regione, nella mia Diocesi e nella mia parrocchia – è la stessa che ho ascoltato, sulle note di Laura Pausini, qualche sera fa durante un momento di riflessione sull’insensatezza del terrorismo, organizzato dai giovani di Ac nella mia parrocchia: “ma che senso ha ascoltare e non cambiare!?”

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