Prete al tempo dell’esilio virale

Che valore ha l'esilio che stiamo vivendo per un sacerdote, che non celebra più con la comunità presente? Forse, prima che una condizione da cui liberarsi, è un invito a riconsiderare il ministero come un fare strada con gli uomini e le donne che accettano di lasciarsi interrogare da Gesù e dalla vita.
25 Marzo 2020

È un esilio simile a quello di tutti gli altri, fatto di parole e sguardi che si incrociano attraverso un computer o un telefono. L’esilio di non poter incontrare e l’impossibilità di stringere mani, di abbracciare, l’impossibilità di andare nelle case per rallegrarsi e consolare e condividere. L’esilio di stare fermi quando si vorrebbe andare per farsi vicini.
E poi l’esilio di non poter accompagnare nel passaggio della morte, cercando parole e gesti di speranza, e di non poter benedire, di non sapere come raggiungere chi viene separato dalla normalità per il sopraggiungere della malattia. L’esilio di non sapere come fare.

Ma è soprattutto l’esilio di celebrare lontano dalla gente, l’esilio di non vivere più l’Eucaristia come luogo di concentrazione simbolica della comunità, magari lamentandomi del fatto che la gente a messa non viene, o viene e non partecipa, o partecipa ma non è consapevole… Celebrare, sapendo certamente che ogni singolo istante della messa si allarga a comprendere tutti gli istanti dispersi delle persone, tutta la gioia e tutto il dolore, tutti i sorrisi e tutte le lacrime, tutto il bene e pure tutto il male: ma non sperimentare più la chiesa come popolo radunato. E ribellarmi all’idea che si possa – magari in emergenza – ritenere che la Messa sia ‘uguale’ a prescindere dalla presenza delle persone, dal loro esserci come corpi e anime e storie. La Messa non è uguale, e – se pure il valore salvifico non cambia – è quasi una perversione pensare che il Corpo di Cristo sia visibile a prescindere dalla sua forma storica che è la comunità cristiana radunata.
L’esilio dunque di sentirmi inutile (molto) e la tentazione – forse – di essere presenzialista in mille modi e con mille streaming (senza giudicare chi cerca onestamente di rendersi presente), di parlare comunque e far vedere comunque che sto facendo qualcosa. E una ‘rivelazione’: che proprio in questa impossibilità sta la verità dell’essere inutili ma in quanto servi. Servi che non cercano qualcosa che è utile, ma qualcosa che è vero, che è umano, che riguarda il livello del senso e non della convenienza pratica.

Mi tornano alla mente le parole profetiche e luminose di Karl Rahner: “Il prete di domani sarà […] un uomo che sopporta, nel pieno senso della parola, la pesante oscurità dell’esistenza insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle. Ma saprà che la tenebra trova la propria origine e il proprio compimento nel mistero dell’amore vittorioso, dell’assurdità della Croce. Sarà […] un uomo che esercita o cerca di esercitare come meglio può un mestiere pazzo, quello di portare non solo i propri pesi ma anche quelli degli altri. […] Il prete di domani sarà un uomo con una professione quasi ingiustificabile da una visuale profana, perché il suo successo più autentico scompa-rirà sempre nel mistero di Dio” (K. Rahner, Discepoli di Cristo – Meditazioni sul sacerdozio, 1968).

Luigino Bruni, in un articolo apparso su Avvenire del 22 marzo scorso (Shabbat rinasce negli esili), scrive: “Ci siamo ritrovati anche noi in una carestia di spazio: sarebbe stupendo se da questo spazio ristretto nascesse un nuovo tempo, se la chiusura degli spazi sacri ci aprisse una nuova sacralità del tempo!”. Forse allora l’esilio – per me prete, dentro un popolo di credenti – non è una condanna (transitoria) da cui attendere di essere liberato per tornare alle ‘consuetudini ecclesiastiche’, ma invito a riconsiderare il mio ministero e ritrovarlo per quello che è: fare strada con gli uomini e le donne che accettano di lasciarsi interrogare da Gesù, ma anche con tutti coloro che si fanno interrogare dall’esistenza. E riconoscere comunque – in ogni uomo e in ogni donna – una bellezza da custodire, una Grazia da coltivare, un destino eterno da riscoprire.
E una strada da percorrere, insieme: con pazienza e perseveranza, con animo più semplice.

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