È un esilio simile a quello di tutti gli altri, fatto di parole e sguardi che si incrociano attraverso un computer o un telefono. L’esilio di non poter incontrare e l’impossibilità di stringere mani, di abbracciare, l’impossibilità di andare nelle case per rallegrarsi e consolare e condividere. L’esilio di stare fermi quando si vorrebbe andare per farsi vicini.
E poi l’esilio di non poter accompagnare nel passaggio della morte, cercando parole e gesti di speranza, e di non poter benedire, di non sapere come raggiungere chi viene separato dalla normalità per il sopraggiungere della malattia. L’esilio di non sapere come fare.
Ma è soprattutto l’esilio di celebrare lontano dalla gente, l’esilio di non vivere più l’Eucaristia come luogo di concentrazione simbolica della comunità, magari lamentandomi del fatto che la gente a messa non viene, o viene e non partecipa, o partecipa ma non è consapevole… Celebrare, sapendo certamente che ogni singolo istante della messa si allarga a comprendere tutti gli istanti dispersi delle persone, tutta la gioia e tutto il dolore, tutti i sorrisi e tutte le lacrime, tutto il bene e pure tutto il male: ma non sperimentare più la chiesa come popolo radunato. E ribellarmi all’idea che si possa – magari in emergenza – ritenere che la Messa sia ‘uguale’ a prescindere dalla presenza delle persone, dal loro esserci come corpi e anime e storie. La Messa non è uguale, e – se pure il valore salvifico non cambia – è quasi una perversione pensare che il Corpo di Cristo sia visibile a prescindere dalla sua forma storica che è la comunità cristiana radunata.
L’esilio dunque di sentirmi inutile (molto) e la tentazione – forse – di essere presenzialista in mille modi e con mille streaming (senza giudicare chi cerca onestamente di rendersi presente), di parlare comunque e far vedere comunque che sto facendo qualcosa. E una ‘rivelazione’: che proprio in questa impossibilità sta la verità dell’essere inutili ma in quanto servi. Servi che non cercano qualcosa che è utile, ma qualcosa che è vero, che è umano, che riguarda il livello del senso e non della convenienza pratica.
Mi tornano alla mente le parole profetiche e luminose di Karl Rahner: “Il prete di domani sarà […] un uomo che sopporta, nel pieno senso della parola, la pesante oscurità dell’esistenza insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle. Ma saprà che la tenebra trova la propria origine e il proprio compimento nel mistero dell’amore vittorioso, dell’assurdità della Croce. Sarà […] un uomo che esercita o cerca di esercitare come meglio può un mestiere pazzo, quello di portare non solo i propri pesi ma anche quelli degli altri. […] Il prete di domani sarà un uomo con una professione quasi ingiustificabile da una visuale profana, perché il suo successo più autentico scompa-rirà sempre nel mistero di Dio” (K. Rahner, Discepoli di Cristo – Meditazioni sul sacerdozio, 1968).
Luigino Bruni, in un articolo apparso su Avvenire del 22 marzo scorso (Shabbat rinasce negli esili), scrive: “Ci siamo ritrovati anche noi in una carestia di spazio: sarebbe stupendo se da questo spazio ristretto nascesse un nuovo tempo, se la chiusura degli spazi sacri ci aprisse una nuova sacralità del tempo!”. Forse allora l’esilio – per me prete, dentro un popolo di credenti – non è una condanna (transitoria) da cui attendere di essere liberato per tornare alle ‘consuetudini ecclesiastiche’, ma invito a riconsiderare il mio ministero e ritrovarlo per quello che è: fare strada con gli uomini e le donne che accettano di lasciarsi interrogare da Gesù, ma anche con tutti coloro che si fanno interrogare dall’esistenza. E riconoscere comunque – in ogni uomo e in ogni donna – una bellezza da custodire, una Grazia da coltivare, un destino eterno da riscoprire.
E una strada da percorrere, insieme: con pazienza e perseveranza, con animo più semplice.