Per un codice deontologico della sinodalità

Per gentile concessione dell'autore, pubblichiamo dal libro "Bose. La traccia del vangelo" un estratto molto utile per questo tempo sinodale
4 Novembre 2021

Credo che il contributo più importante dato dalla comunità di Bose al dialogo tra cristiani sia la messa in atto di un vero e proprio “codice deontologico dell’ecumenismo”, che per certi versi dovrebbe caratterizzare qualsiasi incontro fra posizioni e storie diverse (non solo in ambito teologico o intercristiano) … Quella che segue è dunque una mia sintesi ragionata di tale codice.

 

1) Accettare l’alterità e la diversità dell’altro. Siamo troppo tentati, sia in nome di quelle che riteniamo verità rivelate, sia in nome dell’universalità della ragione illuministica, di forzare l’altro in categorie e pregiudizi che abbiamo costruito tramite la nostra attività di conoscenza e di pensiero. Se è vero che tramite un dialogo autentico è possibile giungere insieme all’altro a scoprire tratti in comune, anche molto profondi e rilevanti, il punto di partenza di un vero incontro può essere solo l’accettazione incondizionata del mistero dell’altro. E ciò comprende anche l’accettazione dei suoi tempi: non tutti sono disponibili al dialogo quando siamo noi a volerlo. La sincronicità è una categoria molto pericolosa, soprattutto quando si incontrano mondi culturali resi estranei da storie differenti, a volte protrattesi per periodi di tempo lunghissimi, di secoli o addirittura di millenni.

2) Lasciare che sia l’altro a definirsi. Sembra una banalità, ma non lo è affatto. La grande svolta recata dai dialoghi ecumenici post-conciliari (spesso rinnegata negli anni più recenti in seno a molte chiese, compresa quella cattolica) è stata la transizione dal «secondo voi protestanti… (o ortodossi, o cattolici, o anglicani)» al tacere e lasciare che su ogni argomento sia l’altro a proporre la propria narrazione: «Per noi protestanti… (o ortodossi, o cattolici, o anglicani)». È il primato dell’ascolto, possibile solo se si fa silenzio, se si mettono a tacere le voci interiori, le nostre rappresentazioni dell’altro che, in realtà, ci impediscono di incontrarlo per ciò che è veramente e che spesso ci pongono in dialogo più con una nostra immagine dell’altro che non con l’altro stesso.

3) Definire se stessi. Nella stessa logica del punto precedente, viene il nostro turno di presentarci, e anche qui siamo ben lontani da qualcosa di scontato. Un impegno serio di esposizione di ciò in cui crediamo comporta un cammino di approfondimento della nostra tradizione, mediante studio, conoscenza e riflessione. Sovente proprio qui giungono le sorprese più illuminanti. Come ho citato più sopra, lo storico ortodosso americano John H. Erickson ha coniato l’espressione untraditional traditionalisms per indicare quelle convinzioni, spesso radicate, riguardo alla nostra tradizione e le nostre tradizioni, che in realtà non reggono affatto a uno studio approfondito della storia perché sono costruzioni ideologiche molto più recenti e infondate di quanto non immaginiamo.

4) Riconoscere a priori un’uguaglianza tra parti in dialogo. Questo è il nodo forse più difficile, e va sicuramente chiarito, ma è anche il più vitale. L’altro è quello che è a motivo della sua storia e cultura, che a priori io non posso giudicare inferiori o errate, anche se apparentemente o concretamente contrastano, in poche o tante cose, con le mie. Si tratta in fin dei conti di essere veramente intelligenti, cioè capaci di leggere le logiche delle storie altrui e di conoscere le proprie: risposte diverse significano divergenze reali solo quando nascono dalle stesse domande, ma nella stragrande maggioranza dei casi sono diverse perché erano diverse le domande che sono state rivolte agli stessi problemi. Allora ascoltando in profondità la definizione che l’altro dà di se stesso (e definendo con studio e competenza noi stessi) è possibile scoprire itinerari di pensiero fatti di domande e risposte differenti, per tornare quindi ai nostri itinerari personali con possibili nuove domande imparate dall’altro da rivolgere alla realtà (e a cui rispondere impegnandoci di persona in un cammino di riflessione). È il meraviglioso détour di cui ha parlato con grande saggezza Paul Ricœur: la digressione o diversione in mondi diversi dal nostro che ci restituisce alle nostre vite arricchiti di nuove prospettive e possibilità.

5) Non temere la trasformazione messa in moto dal dialogo. Se tutti i passi precedenti sono stati compiuti, si è ormai sulla soglia di un processo reale e profondo di cambiamento, di fronte al quale è possibile e normale provare timore. Cambiare è lasciare che una parte di noi stessi, delle nostre idee, muoia, per far posto a qualcosa di nuovo di cui non ci è possibile stabilire a priori i contorni. Enzo Bianchi l’ha definita una kénosis, uno svuotamento per amore, che è la via cristiana verso la risurrezione di ogni cosa. Ma vale anche in termini laici, perché ogni nostra conoscenza può e deve essere messa in discussione dal pensiero, che per sua natura è dialogico, ed è vero dialogo se accoglie in sé l’alterità radicale dell’altro per costruire nuove sintesi di cui l’ego, da solo, non può mai essere padrone… L’identità si compone infatti sempre di un dialogo tra ciò che già siamo ora e gli interrogativi che ci pone la realtà esterna, l’altro, ogni altro.

 

2 risposte a “Per un codice deontologico della sinodalità”

  1. BUTTIGLIONE PIETRO ha detto:

    OT. A me kenosis richiama Jonas, ma anche Paolo, quello Santo e quello de’ Benedetti, Levinas..
    IT. Sempre allineato con Prof. Gil.
    Prima definire chi siamo. Hard probl.
    Cmq distinguerei due piani, diversi.
    Quello dell’incontro Persona con Persona e qui sottoscrivo tutto.
    Quello tra Religioni storiche necessita di altre vie, mezzi, livelli.
    Prova ne sono i decenni trascorsi a dialogare.. con pochi risultati ottenuti. Davvero? Chi si ricorda quando NOI sostenevamo che dialogo ecumenico significasse che gli ALTRI si dovevano convertire a noi??
    Conclusione:
    come sempre.. siamo indietro, noi.
    200 anni??

  2. gilberto borghi ha detto:

    Deduco da questi criteri una sintesi: nessuno possiede la verità, ma tutti siamo posseduti dalla verità. Perciò nessuno ha diritto di imporre la propria visione come l’unica rispondente alla verità.
    Questa dinamica, nel sinodo, sarebbe da vivere a partire dal rapporto con chi condivide la propria fede. E ho l’impressione che proprio su questo punto il lavoro da fare sia enorme: se proviamo a definire cosa sia per noi credere in Cristo, potremmo accorgerci che, proprio all’interno della Chiesa, le differenze di prospettiva sono enormi, forse anche tali da rendere difficile un riconoscimento reciproco.
    E allora qual è il minimo che ci tiene insieme, sotto il quale la reciproca appartenenza a Cristo è impossibile? E chi lo può definire tale minimo?

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