Quale bene può derivare al nostro modo di essere cristiani lo scandalo della pedofilia? Credo sia la domanda più giusta, che eviti di rimuovere il problema (come purtroppo siamo troppo tentati di fare) e aiuti ad andarne alla radice.
Certo la questione chiama anzitutto in causa i sacerdoti, la loro identità e formazione; e ci sarebbe molto da discutere al riguardo. Una cosa su tutte: ha ancora senso che, mentre Papa Francesco parla di Chiesa in uscita, a chi vuole diventare prete siano chiesti nei seminari anni di “distacco” dal mondo, per quanto oggi mitigato da tante nuove modalità di intendere e organizzare il seminario?
Ma non è su questo che mi vorrei soffermare. Da laico infatti pongo la domanda anzitutto a me, al mio modo di pensare e relazionarmi con i preti, che, riconosco, può non aiutare e talvolta perfino aggravare tutto ciò che sta alla base dell’iceberg affiorato con lo scandalo della pedofilia.
Credo questa vicenda ci chieda di imparare a pensare al sacerdote come un uomo. Come pienamente uomo. Suona strano doverlo affermare. Da un lato è chiaro ed evidente che il prete sia un uomo. Affermiamo dogmaticamente la piena umanità di Gesù Cristo, come può venirci in mente di negarla per i sacerdoti? Eppure nel nostro modo di pensare ai preti e soprattutto di relazionarci con loro spesso non è così. Quante volte trattiamo i preti come se fossero altro da noi, come se le stesse questioni che toccano noi (emozioni, sentimenti, affetti, titubanze, paure, limiti, peccati, e chi più ne ha più ne metta) non dovessero riguardare loro! Quante volte pretendiamo dai preti cose come una totale coerenza di vita, una assolutamente illuminata capacità di valutazione, un atteggiamento perennemente votato al dono di sé, uno sguardo sempre capace di cogliere la verità delle cose… Aggiungendoci poi anche tutta una serie di richieste per un “più di facile uso e consumo”: e allora il prete deve essere brillante, coinvolgente, non troppo lungo, accondiscendente verso ogni nostra proposta, capace di risolverci i problemi che abbiamo con la collega catechista che ci sta sulle scatole, ecc… E quando per una ragione o per l’altra il prete non soddisfa tutte queste nostre aspettative abbiamo gioco facile nel dire: “ma che prete è!”.
Noi laici facciamo in fretta ad attribuire ai sacerdoti, quando ne abbiamo l’occasione, il versetto in cui Gesù afferma “Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!” (Lc 11,46), ma non è che forse coi sacerdoti noi rischiamo di comportarci allo stesso modo, pretendendo da loro la perfezione, mentre noi, beh… “noi non siamo mica dei preti!”. Credo che questo nostro atteggiamento, queste nostre pretese, non aiutino ma invece appesantiscano il vissuto quotidiano di un sacerdote, che, per come è concepito, deve già far fronte a questioni complesse e difficili da gestire.
Una su tutte: la dimensione sessuale. Molti danno per scontato che, se una persona ha fatto questo tipo di scelta, abbia come rimosso questo aspetto dalla sua esistenza. Non solo non è così, ma sarebbe seriamente problematico se un prete si pensasse così. Il fatto però che il binomio prete-sessualità (intesa in senso stretto) sia considerato del tutto impronunciabile, fa sì che un prete si trovi ad essere estremamente solo nel vivere questa dimensione. Perché non esiste uno spazio neppure accennato entro il quale sia possibile associare senza scandalizzarsi la figura del prete alla sua dimensione sessuale, propria dell’uomo che è. Si passa subito al peccato. O addirittura a qualcosa di più del peccato (che può sempre essere rimesso): qualcosa che proprio non dovrebbe esistere, non può assolutamente verificarsi.
Questo determina che, mentre un laico che vive disordini e cadute nella sfera affettiva trova comunque un suo posto nella comunità sociale ed ecclesiale (su questo la Chiesa di passi in avanti ne ha fatti!), così non è per un prete. Tant’è che quando emerge qualche questione (molto prima della pedofilia) il prete viene normalmente allontanato dalle comunità cristiane e se ne perdono le tracce. Quasi che sia impossibile immaginare una comunità cristiana capace di accogliere e fasciare le ferite di un prete che appare come uomo-fragile.
Credo che da questo punto di vista la vita comunitaria tra sacerdoti sia senz’altro una via significativa. Credo che in quel contesto possa realizzarsi una condivisione realmente capace di dare casa alla piena umanità del prete. Ma dal punto di vista di noi laici ritengo sia indispensabile cambiare profondamente il nostro sguardo nei confronti dei sacerdoti, imparando a considerarli anzitutto uomini, in tutto simili a noi, con le nostre stesse fatiche, i nostri stessi pensieri, le nostre stesse fragilità. Uomini che necessitano, come ogni altro, della nostra compassione (evangelicamente intesa) e della nostra cura rispetto ad ogni dimensione del loro vissuto umano.