Noi donne possiamo fare la differenza

In Australia la diocesi con la minore incidenza di abusi è quella di Adelaide, è all'avanguardia nella nomina di donne - laiche e religiose - come vicarie episcopali e quindi con autorità anche sopra i sacerdoti. Sarà un caso?
5 Ottobre 2018

In settembre “La Stampa” ha pubblicato una notizia molto interessante: in Australia – uno dei Paesi dove il problema pedofilia è emerso con più forza distruttiva – il Consiglio per la Verità, la Giustizia e la Guarigione, che è stato istituito dalla Chiesa cattolica per rispondere alle denunce di abusi sessuali emersi dalla Commissione Nazionale d’Inchiesta, ha proposto di adottare nella Chiesa un meccanismo di quote per affidare a donne ruoli decisionali in tutti i livelli. Dal lavoro della Commissione, infatti, emerge che la diocesi con la minore incidenza di abusi dal 1950 ad oggi, è quella di Adelaide, che si caratterizza tra l’altro perché è all’avanguardia nella nomina di donne – laiche e religiose – come vicarie episcopali e quindi con autorità anche sopra i sacerdoti. Insomma è una diocesi con «una differenza culturale significativa».

Pochi giorni dopo Lucetta Scaraffia, scrittrice e opinionista dell'”Osservatore Romano”, in un’intervista al “Corriere della Sera” dichiarava che sì, nel clero allignano molti pedofili, e che «…La Chiesa non ha mai affrontato la rivoluzione sessuale infiltratasi al suo interno. Tanti preti si sono convinti che la castità sia una repressione apportatrice di nevrosi, per guarire le quali tutto è ammesso». Per affrontare costruttivamente il problema della pedofilia – facendo emergere i casi ancora nascosti, stando vicino alle vittime e supportandole, ma soprattutto cercando di prevenire il ripetersi di questi atti orrendi – servono comunità ecclesiali coese e mature, in cui i laici abbiamo responsabilità e spazi per portare le proprie competenze le proprie capacità di ascolto e di relazione. E in cui, tra i laici, le donne abbiano quel diritto di parola e quel potere di decisione che ancora non hanno.

Sappiamo benissimo che tra coloro che si impegnano nelle parrocchie le donne sono ancora, nonostante tutto, la maggioranza: tra le catechiste e in generale nella pastorale, ma anche nelle attività caritative e in quelle che accompagnano la vita quotidiana delle comunità. Sappiamo altrettanto bene, che le donne non stanno nei luoghi decisionali della Chiesa: dalle parrocchie al Vaticano, passando anche per molte (non tutte) aggregazioni laicali. La Chiesa si muove, su questo tema, con un ritardo inspiegabile, che contribuisce ad allargare quella frattura con la società civile che diventa sempre più evidente. È un problema di potere, ma soprattutto di cultura e di relazioni, di ricchezza di relazioni. Dal Concilio, il ruolo delle donne nella società è molto cambiato, ed il contributo che esse hanno dato alla Chiesa – anche nell’applicazione del Concilio stesso – è inestimabile, sia sul piano della vita quotidiana come su quello del pensiero. Si pensi alla ricchezza dell’elaborazione teologica delle donne. Qual è il problema? Che i teologi non leggono le teologhe, le quali invece li leggono e li citano.

Accettare e valorizzare la differenza, e soprattutto che la differenza è ricchezza, porta a cambiare il modo di pensare la Chiesa. In essa ancora le donne sono relegate ai ruoli educativi e di cura (il catechismo, appunto, e la beneficienza) che si ritengono più “femminili”: siamo fermi agli anni sessanta, sicuramente a prima di Wojtila. E gli uomini – compresi i preti – sono ancora relegati al modello del maschio che non deve chiedere mai, come appunto nelle peggiori pubblicità di qualche decennio fa. Dunque, donne sottovalutate, preti soli, comunità più povere. Fa male alle donne stare dentro gli stereotipi (pensate alle religiose ridotte fare le colf dei preti), ma fa male anche gli uomini. Lo stereotipo dell’uomo disincarnato e razionale, cui i preti sono chiamati a omologarsi, li rende incapaci di mostrare le proprie emozioni, di riconoscere le proprie debolezze, di chiedere e ricevere aiuto per affrontarle, e anche di fare i conti con il peso e la ricchezza della propria corporeità. Se l’uomo-prete potesse scendere dal proprio piedistallo e fare i conti con le proprie fragilità – come ognuno di noi fa o dovrebbe fare – scoprirebbe una dimensione in cui la debolezza diventa forza, le relazioni diventano più ricche e più autentiche e modi di vedere diversi si aprono. Insomma, l’invisibilità delle donne nella chiesa rende invisibili anche gli uomini. Riconoscere le donne – e dare loro spazio – vuol dire riconoscere gli uomini.

Oggi la Chiesa è clericale anche perché ha un enorme problema di governance: i laici sono la “riserva” di un clero sempre meno numeroso, le donne sono la “riserva” dei laici maschi. In quest’ottica, sarebbe importante anche riaprire la riflessione sui ministeri che non richiedono il sacramento dell’ordine (è ora di riconoscere il diaconato femminile). Ma sarebbe già un grande passo avanti dare un ruolo alle donne nel governo della Chiesa – sperando che non si clericalizzino a loro volta – per attuare una vera corresponsabilità battesimale. Vorrei vedere donne anche là dove si aiutano gli uomini a discernere la propria vocazione. Forse la mia esperienza personale è particolarmente infelice, ma ho l’impressione che sempre più la Chiesa diventi il rifugio di persone che sono in realtà in fuga da un mondo che non saprebbero affrontare, in cui non sarebbero in grado di ritagliarsi un posto. Accanto a sacerdoti, che autenticamente testimoniano una fede profonda e consapevole e che sono capaci di instaurare relazioni umane e spirituali ricche e costruttive, vedo sempre più sacerdoti o aspiranti tali, che sembrano non avere affrontato il problema della propria identità, sul piano psicologico e su quello sessuale, che sono poi tutt’uno. Nella Chiesa si sentono protetti, hanno un ruolo, una sicurezza materiale e l’alibi per non affrontare il problema della propria identità. E purtroppo molti seminari, di fronte all’horror vacui, accolgono anche persone la cui priorità dovrebbe essere proprio questo: un percorso di presa di coscienza di sé e della propria identità.

Questo apre altri fronti di riflessione. Serve alla chiesa un approccio alla sessualità che non sia angelicato, che sia positivo e che permetta anche ai sacerdoti di guardarsi dentro, conoscersi, accettarsi. E serve un ripensamento della castità, valore oggi difficile da gestire, non solo a fronte del problema pedofilia, ma anche a fronte di quanti coltivano rapporti di coppia nascosti o rinunciano all’abito per sposarsi.

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