Ma nonostante tutto Dio ci “lavora”..

Parrocchie,fedeli,preti e gerarchie
27 Giugno 2018

Credo che le nostre parrocchie ordinarie mostrino, nella realtà, una varietà di situazioni e stili che non si lasciano facilmente ridurre ad un denominatore comune. Ci sono situazioni in cui arriva il parroco nuovo e la parrocchia si rivitalizza improvvisamente, o, al contrario, si spegne gradualmente. Situazioni in cui la stabilità del parroco e del territorio, non troppo modificato da migrazioni o da scelte urbanistiche radicali, il tram tram usuale di anni continua ad andare avanti senza apparenti scossoni. Parrocchie in cui, invece l’essere una “periferia”, dove i cambiamenti epocali diventano realissimi ben presto, ci si inventa di tutto per continuare ad essere “nel mondo”. Ci sono credenti anonimi, che però continuano nel loro intimo la fiamma di una fede effettiva, anche se piccola. Ci sono non più credenti che hanno mollato da tempo la partecipazione, ma continuano ad avere una certa nostalgia della Chiesa e coltivano una speranza mal celata che la comunità sia capace di riconquistarli. Ci sono praticanti puramente culturali, che davvero non sembrano trasportare nulla dalle loro celebrazioni alla loro vita.

Insomma davvero difficile una descrizione, minimamente sufficiente degli atteggiamenti più svariati che si incontrano in una penisola lunga 1000 km. Nonostante questo ho la sensazione che alcune linee di fondo ci siano, che al di sotto delle singole situazioni, segnano la condizione della Chiesa in Italia. Provo a elencarne tre.

Credo sia evidente intanto che, nel bene e nel male, le nostre parrocchie siano ancora troppo “clericocentriche”. Il ruolo del parroco è spesso percepito, vissuto e di fatto agito, come la somma di tutti i carismi ecclesiali, con l’inevitabile retrocessione dei laici ad esecutori, panchinari e operai ecclesiali. Non mi soffermo sulle cause e sugli effetti, già riletti e ridetti. Di certo in Francia, dove per scelte ecclesiali fatte trent’anni fa, e cause culturali ben più corrosive che in Italia, oggi si assiste al riempimento dal basso, del vuoto lasciato dalla assenza dei preti, da parte di laici singoli e gruppi di laici che rianimano nuove comunità ecclesiali, ma con forme e stili davvero lontani mille miglia del clericalismo. Continuo, per questo, ad essere convinto che la crisi vocazionale dei preti abbia perciò anche aspetti molto positivi. Forse per dirci che la Chiesa sta in piedi sulla fede e non sui preti. La chiesa del Giappone subì una dura persecuzione agli inizi del secolo XVII. Vi furono numerosi martiri, i membri del clero furono espulsi e migliaia di fedeli furono uccisi. Allora la comunità si ritirò nella clandestinità, conservando la fede e la preghiera e quando nasceva un bambino, il papà e la mamma lo battezzavano. Quando, dopo circa due secoli e mezzo, i missionari ritornarono in Giappone, trovarono lì sorprendentemente migliaia di cristiani che uscirono allo scoperto.

Secondo. Le nostre parrocchie, nonostante tutto, o purtroppo, a seconda di come lo si vede, sono ancora abbastanza definite da persone che abitano il territorio effettivo della parrocchia. L’appartenenza spaziale sembra cioè un dato ancora presente. Ma l’impressione è che la frattura post – moderna tra i livelli in cui la società si struttura, spesso non permetta più, di prendersi davvero carico di quel territorio. La Chiesa italiana aveva sicuramente il controllo del territorio che presidiava, ma come tutte le istituzioni sociali anche lei ne ha perso quasi tutto il potenziale. Questo indica che la comunità che realmente si ritrova a celebrare, pur essendo fatta di persone che abitano vicine e si conoscono, non sono, fuori dalla Chiesa, una società effettiva. Questo soprattutto nei grandi centri urbani, ma comincia ad essere tale anche nei piccoli centri agricoli. E se la società non esiste più, come insieme abbastanza organico di trame di relazioni di cui si condivide socialmente il senso, allora la comunità ecclesiale non può dare per scontato che sia sufficiente accostarsi gli uni agli altri durante la celebrazione per vivere effettivamente l’essere Chiesa.

Sul piano prettamente di fede, la sensazione è che chi frequenta la Chiesa, stia ritornando ad una religiosità individuale e “materica”, fatta di gesti, eventi e credenze, in cui il confine tra fede, superstizione e magia non è così netto come forse, una certa ortodossia intellettuale vorrebbe. E se da un lato, questo consente di riaprire strade di spiritualità a persone che non sembravo essere molto interessate all’intellettualità della fede, dall’altro offre il fianco ad una fede “strumentale”, in cui il sacro serve per vivere meglio, e poche volte diventa ciò che le persone davvero scelgono di servire, oltre che con le celebrazioni, anche con la vita.

Forse queste tracce ci stanno dicendo che la Chiesa italiana sta cambiando pelle, ben oltre e ben prima di come le gerarchie vorrebbero cambiarla o mantenerla. E resta tutto da verificare se in questo cambiamento ci sia o non ci sia lo zampino di Dio. Personalmente penso che Dio non ne sia assente, oltre e al di là di ciò che le gerarchie vorrebbero produrre o salvare. E allora, forse, invece di continuare a cercare modi per “controllare e gestire” la Chiesa italiana, la gerarchia farebbe bene a aprire gli occhi su ciò che davvero sta nascendo o morendo nella Chiesa italiana e poi darsi il tempo di sperimentare dal vivo il senso del cambiamento, per poterlo poi valutare alla luce dello Spirito.

Ma per farlo ci vuole un po’ meno paura che la storia della Chiesa Italiana sfugga alle mani di Dio…

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