La giornata si presenta difficile. Il gruppo dei bambini di quinto anno sale le scale stile “mucchio selvaggio”, incurante dei richiami: fate piano – non spingete – attenti che vi fate male.
Nella stanza i tavoli sono preparati, con il materiale per il cartellone, colle, giornali, colori, pennelli: dobbiamo (dovremmo…) riassumere in poche immagini il percorso fatto per approfondire il sacramento della Penitenza, trovare il nucleo, dire cosa significa nella nostra vita. Ma tutti i progetti mostrano immediatamente la loro fragilità: oggi non c’è verso.
Stamattina a scuola non è filato tutto liscio: una verifica difficile, un compagno che cerca di farsi suggerire, un altro che avvisa l’insegnante, l’inevitabile scontro all’arma bianca.
L’incontro è un’appendice della mattina, con le due fazioni che difendono i rispettivi amici: “Tu sei un lecca-lecca che deve dire tutto alla maestra!”; “Tu non studi mai e vuoi sempre copiare!”.
In tanti anni abbiamo strutturato strategie diverse per far fronte a questi momenti. Non sempre funzionano, ma almeno ci proviamo:
“Allora ragazzi, tutti seduti in cerchio. Via i tavoli!” (mettere a posto la stanza, fare qualcosa di concreto, interrompe immediatamente il litigio ed aiuta ad investire altrimenti le energie);
Le regole sono le solite:
1. Si parla uno per volta, possibilmente si parla tutti, si aspetta che sia finito il giro per intervenire di nuovo;
2. Assolutamente vietato dire “Lo sai che lui/lei…”: ciascuno deve parlare di sé, di cosa ha fatto e di come la pensa, senza raccontare altro;
3. Non siamo qui per decidere chi ha ragione. Solo per capirci.
Il dialogo comincia, gli animi sono ancora accesi, ma c’è maggior controllo. Quando arriva il turno di Paolo, però, si rivolge a me con una domanda a bruciapelo, del tutto inattesa:
“Ma tu, quanti soldi prendi per fare catechismo? Sì, insomma, quanto ti pagano per questo lavoro?”
“Beh, io non prendo soldi. In realtà questo non è un lavoro, è un servizio, un modo bello che ho trovato per raccontare a tutti come è importante incontrare Gesù…”
Paolo ha sentito solo le prime quattro parole, e mi interrompe:
“Vuoi dire che tu vieni qui tutte le settimane a fare tutta questa fatica, GRATIS???”
“Sì…”
“Ma tu sei tutta matta!!!”
Un attimo di silenzio, io scoppio a ridere e subito una risata contagiosa e liberatoria si diffonde nella stanza. Il confronto prende un’altra piega, parliamo di cosa significa fare qualcosa per gli altri, di cosa vuol dire aiutare un compagno in difficoltà e della differenza tra il farlo onestamente o con i sotterfugi. Alla fine dell’incontro se ne vanno a giocare insieme, nel campetto del patronato.
A me però è rimasta in testa, quella domanda.
Come posso far passare l’idea di “Grazia” se i ragazzi faticano a concepire che esista qualcosa che non si paga?
In fondo però è vero, la loro vita non offre molti spazi di gratuità: la regola più comune è il do ut des, a cominciare dal “se fai il bravo poi ti compro un gelato”. A scuola vengono valutati, continuamente: “che voto hai preso?” è la domanda più frequente che si sentono porre al termine della giornata. Nello sport i più dotati sono premiati con un posto in squadra, i più fragili arrancano alla ricerca di un successo che faticheranno a raggiungere. Così per musica, danza, karaté e attività varie.
Catechismo è, e resta, uno spazio prezioso, la possibilità di sentirsi parte di qualcosa in cui non si viene misurati sulla produttività, nessuno viene escluso dal cammino comune, o giudicato insufficiente. Basta presentarsi, e si è accolti. Il catechista è lì per tutti e per ciascuno, in spirito di servizio, senza corrispettivi. Dovrò recuperare tutto questo, la prossima volta, per parlare di perdono…
Riordino la stanza, mentre ringrazio il Signore del pomeriggio trascorso.