Un tema cruciale e urgente come quello della famiglia, dovrebbe coinvolgere in un’ampia discussione non solo i padri sinodali, ma l’intera Chiesa: sacerdoti e laici, parroci e monaci, chiese metropolitane e chiese di campagna, associazioni, movimenti e parrocchie. Non sono sicura che questo stia avvenendo: mi sembra che siamo tutti in attesa di vedere che cosa salterà fuori dal sinodo, tanto siamo il Paese del Gattopardo e anche nella Chiesa siamo ben capaci di far sì che tutto cambi perché nulla cambi. Cosa che mi sembra stia avvenendo puntualmente con papa Francesco: che inviti ad una chiesa aperta, povera e accogliente o che prenda qualche decisione chiara per la riforma della curia e per la sua purificazione, le sue parole e i suoi gesti sono argomento di conversazione più fra i non credenti che tra i credenti, più nei bar che nelle parrocchie, dove la vita continua a scorrere tranquilla e senza scossoni.
Anche per questo io credo che il problema oggi non sia la riforma della curia, ma della Chiesa, della sua struttura e del suo stile di presenza nel mondo. Lo chiede l’urgenza stessa dell’evangelizzazione.
Nel suo libro “La Chiesa cattolica verso la sua riforma” (Queriniana 2014), Severino Dianich fa notare che «solo il 23,5% dei cattolici vive in Europa, e poco più del 30% sono quelli appartenenti al mondo abitualmente caratterizzato da ricchezza e modernità avanzata, comprensivo degli Stati Uniti e del Canada: sette cattolici su dieci, invece, vivono in America Latina, Asia, Africa e Oceania». È in questi paesi che la presenza dei cattolici (quella misurabile, cioè la percentuale dei cattolici sul totale della popolazione) cresce, non certo in Europa.
Forse dobbiamo prendere atto che il “modello europeo”, o almeno italiano – rigidamente strutturato e verticistico, con un forte potere politico basato sulla contrattazione diretta tra gerarchie ecclesiali e gerarchie di governo, con un laicato residuale quanto a ruolo e funzioni – non funziona più e sta portando i cattolici ad una sempre maggiore incapacità di testimoniare la Salvezza. Più che di nuova evangelizzazione, occorrerebbe parlare di nuova Chiesa, che proprio per la sua novità ritrovi la forza della testimonianza e la capacità di evangelizzare.
Bisognerebbe ripensare la Chiesa secondo la definizione offerta al Concilio: «la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano» (LG 1,1). Definizione grazie alla quale, scrive Dianich, i padri conciliari «liberavano la chiesa dall’antica, diffusa presunzione – dalla quale erano derivate non poche forme improprie del suo rapporto con la società civile – che la proponeva come fosse il punto di arrivo della storia, nel quale l’umanità intera avrebbe dovuto convergere, pena il suo fallimento. La Chiesa è, invece, un segno e uno strumento al servizio dell’umanità, mentre il fine della storia è il Cristo, luce delle genti, e l’instaurarsi definitivo del Regno di Dio che viene dalla sua grazia. Si affermava così un duplice percorso e una duplice finalità della missione: la chiesa intende servire gli uomini sia perché raggiungano una loro “intima unione con Dio”, sia perché si compia “l’unità di tutto il genere umano”». Il rinnovamento della Chiesa parte da qui: dalla ricerca di un presenza nel mondo basata sul suo essere segno e sacramento, e non sul suo essere una potenza tra i potenti; basata sul suo essere vita, non apparenza.
Quello che oggi si chiede è una svolta storica, nel senso letterale del termine, perché nel corso della sua lunga vita la Chiesa ha quasi sempre cercato di legare l’evangelizzazione e la missione con la conquista del riconoscimento da parte degli Stati e del potere. Si è preoccupata più dei rapporti tra vertici che tra popoli. Non è più il tempo degli stati confessionali, è il tempo di una Chiesa che dice al mondo che c’è qualcuno che lo ama e che lo vuole salvare. Ma occorre trovare «l’entusiasmo, l’energia, il gusto della ricerca delle vie nuove sulle quali rilanciare l’evangelizzazione». E tutto questo si trova nella conversione dei cuori, certo, ma anche nella riforma della Chiesa, una riforma che la coinvolge in tutte le sue componenti, dalla punta del vertice alla parrocchia più periferica e che riguarda tanto la vita quotidiana delle comunità quanto l’aggiornamento di un Codice di diritto canonico che Dianich definisce “introverso”.
Credo che una ipotetica “agenda delle riforme” debba comprendere cinque punti fondamentali:
– La sinodalità. Occorre costruire collegialità a tutti i livelli, sia per i fedeli laici in sede parrocchiale e diocesana, sia per i preti nel rapporto con i vescovi. Ad esempio creando organismi sinodali «articolati in base alla materia da trattare e ai corrispettivi carismi». Anche tra i vescovi occorre conquistare una maggiore collegialità, e gli strumenti adeguati per renderla effettiva.
– I laici. Va riconosciuto e valorizzato il loro ruolo nella chiesa e la loro autonomia nella società.
– Le donne. Una Chiesa inclusiva, che valorizzi il genio femminile, non può continuare ad escludere le donne dai luoghi decisionali e a rimandare ancora temi come quello dell’ammissione al lettorato e al diaconato.
– La collaborazione ecumenica. Va sviluppata l’attenzione nei confronti dei cristiani non appartenenti alla Chiesa cattolica e la collaborazione ecumenica, che potrebbe riguardare la carità, ma anche la comunicazione della fede e del messaggio di Gesù.
– La povertà. Solo una chiesa “liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici” (Benedetto XVI) può dedicarsi davvero al mondo. Ancora una volta, questa liberazione riguarda la Santa Sede e le sue istituzioni, ma anche le chiese locali, la parrocchie, i conventi e i monasteri, le associazioni, la famiglie, i singoli fedeli.