Torna come ogni anno la Settimana per l’unità, o meglio, per la riconciliazione dei cristiani. In passato la fantasia pastorale ha cercato di evitare una ritualità stanca, appiattita su preghiere confezionate e dotte conferenze sulle “prospettive future”: ecco allora gli esemplari gemellaggi con comunità lontane, inviti ai testimoni del cammino ecumenico, veglie giovanili in stile Taizè. Tentativi insomma di uscire dal rischio di un ecumenismo comunque di vertice (dove i passi del cammino si misurano sui vocaboli di una “Dichiarazione comune”) ed entrare in quell’ecumenismo di base che rinnova e riconverte le Chiese dall’interno.
Ma un formidabile segno dei tempi, forse un soffio dello Spirito sull’unità da cercare ogni giorno, viene dall’inedita prossimità di tante persone ortodosse, che sono venute a mescolarsi nelle nostre città e nei nostri paesi. Perché non cominciare a sperimentare con loro la dolce fatica del confronto ecumenico in una confidenza domestica. A casa dei nonni o dei genitori anziani è sempre più facile prendere un thè con la badante (il termine è certo riduttivo, segnale forse di un atteggiamento di superiorità) dal nome slavo ed entrare ben presto nel suo retroterra famigliare ma anche nel mondo spirituale, con i suoi santi, i suoi riti, il suo calendario. E può così capitare che dalla stima e dalla reciproca riconoscenza nasca anche un invito al pranzo di Natale ortodosso nella famiglia moldava da poco “ricomposta”. Dall’aperitivo rumeno doc all’insalata russa, passa dai piatti della loro tradizione il gusto dell’altra cultura, fino alle spiegazioni sul calendario ortodosso appeso al muro, o sul valore delle icone, o sulle usanze natalizie. Commuove e ci interroga quel canto-preghiera di fine pasto – in piedi attorno al tavolo, noi cattolici in ascolto stupìto – per benedire la mensa, ma soprattutto l’amicizia dei commensali.
Un raccoglimento sincero, testimonianza di profondità spirituale intrisa di silenzi e invocazioni a canone. Li possiamo cogliere anche quando ci imbattiamo occasionalmente nelle loro Divine Liturgie celebrate in una chiesa di periferia. Alle famiglie cattoliche o ai gruppi di catechesi non farebbe male “entrare” nella conoscenza di questi momenti vissuti da tanti immigrati di confessione diversa: non per superficiale curiosità verso il rito così lento e silenzioso, ma per respirare anche con quel polmone spirituale e ridare ossigeno al proprio.
Dal rapporto fraterno nasce la “teologia delle piccole cose”, s’abbattono pregiudizi, si apprezzano le differenze. Può venirne lo slancio come cristiani a crescere “nella consapevolezza che l’unica parola di Dio non ci ha ancora riconciliati, che la sequela di Cristo non costituisce ancora la centralità del nostro pensiero”.
Non si tratta di opportunismi, ma dell’esigenza evangelica: “L’ecumenismo non può rappresentare un artifizio ‘per star meglio’ fra di noi – scrive Alessandro Martinelli nelle sue riflessioni intorno alla Charta Oecumenica (“Ecumenismo. La fatica di cercare”. Edizioni 31) – quanto una dimensione da vivere, ‘intrinsecamente cristiana’, in grado di mostrare a noi e al mondo cos’è e di cos’è fatto il messaggio nuovo di Cristo. Di conseguenza, forse non è tanto in quell”Ut unum sint’, fin troppo abusato, la radice dell’ecumenismo, quanto in quel ‘Fate questo in memoria di me’, là dove ai cristiani è chiesto di vivere ‘gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù’, poiché solo così potranno essere riconosciuti: ‘se avranno amore gli uni per gli altri’.”
E’ possibile parlarne a tavola con la “nostra” badante, magari dopo la preghiera, sorseggiando insieme un tipico liquore venuto dall’Est?