L’ecclesiologia del caso Barbarin

L'ecclesiologia del caso Barbarin
11 Marzo 2019

La vicenda del Card. Barbarin si aggiunge alla lunga (troppo lunga, purtroppo) serie degli scandali sulla pedofilia in cui la Chiesa si trova invischiata. Non entro nel merito perché credo che in qualsiasi di questi casi sia davvero immorale rischiare di fomentare l’utilizzo del dolore e della colpa a fini ideologici o bassamente politico ecclesiali. Tolleranza zero non significa che siamo autorizzati a sparare sulle vittime e sui colpevoli, veri o presunti che siano. La cosa che mi colpisce, su cui vorrei riflettere, sperando che anche i possibili commentatori restino su questo (cosa che però, purtroppo, dubito) è invece come in questo caso sia possibile intravvedere alcuni meccanismi con cui il clericalismo funziona in rapporto ad una certa ecclesiologia.

Il Card. Barbarin è accusato di aver coperto gli abusi del sacerdote Bernard Preynat, avvenuti negli anni ’70-’80, sotto l’allora vescovo di Lione card. Billè. Nel 2014 uno delle vittime, Alexandre Hezez, denuncia a Barbarin le violenze subite, benché fossero già prescritte per la legge francese. Il cardinale lo invita a denunciare alle autorità i fatti e a ricercare altre vittime di fatti non ancora prescritti. Poi chiede consiglio su cosa fare a Roma, alla congregazione per la dottrina della fede. Il card. Ladaria, allora prefetto della congregazione, risponde a Barbarin di adottare «appropriate misure disciplinari», ma di «evitare lo scandalo pubblico». Barbarin allora sospende il sacerdote, ma non denuncia alle autorità i fatti di cui era venuto a conoscenza. In questi giorni il tribunale francese lo ha condannato a sei mesi con la condizionale per aver taciuto tali violenze. Ora, ci sono tre elementi che mi colpiscono.

1) La risposta del card. Ladaria. Siamo nel 2015, Francesco ha già parlato, almeno una volta di tolleranza zero su questo tipo di violenze, ma la necessità di “salvare” l’onore dell’istituzione è ancora più forte del richiamo della coscienza a non essere conniventi con il peccato. La difesa dell’istituzione ecclesiale, in questo modo di agire, ha più valore del rispetto delle persone. E ciò non dipende essenzialmente solo dalle condizioni etiche dei soggetti implicati, ma anche da un’ecclesiologia malata, che fa da sfondo “istintivo” di riferimento, in cui l’essere “corpo mistico” arriva a sacrificare il singolo membro, per il bene di tutto il corpo, applicando Mc 9,43 contro 1 Cor 12,26. San Tommaso giustificava allo stesso modo la pena di morte. Ma in realtà il bene del “corpo mistico” non è la difesa di sé stesso, ma l’essere strumento di salvezza per tutto il mondo, perciò andrebbe applicato 1 Cor 12,26, come Francesco già ha dimostrato di fare, proprio su questa faccenda, e non Mc 9,43.

2) Quando nel settembre 2018, il Card. Ladaria riceve una convocazione a comparire in tribunale come testimone, al primo processo contro Barbarin, (sullo stesso caso, poi assolto), il prefetto romano oppone l’immunità “ratione materiae, per atti compiuti in nome del sovrano Pontefice”. A mio avviso, una istituzione che esiste per la salvezza di tutto il mondo dovrebbe trovare tutte le vie possibili per rendersi credibile e veritiera agli occhi delle istituzioni del “mondo”. Ma anche qui sembra che il “segreto” a difesa degli affari interni sia utilizzato, dalla Chiesa, nelle stesse identiche forme degli stati nazionali, preoccupati della difesa di sé stessi. Quindi, anche la Chiesa utilizza la stessa logica, in cui per prima cosa si lavora per salvare sé stessi e per difendersi dagli altri. Se Cristo avesse ragionato così sarebbe ancora vivo, ma noi saremmo ancora “morti”.

3) La linea difensiva del Card. Barbarin, nell’ultimo processo, in cui è stato condannato, è quella di non aver mai coperto nessuno, ma di aver “dato corso alle indicazioni arrivate da Roma”. Ora, già dal concilio Vat. II la Chiesa locale era stata indicata come il luogo della pienezza della Chiesa, attorno alla sua unità visibile, il Vescovo. Era già stata superata, sulla carta, una visione ecclesiologica piramidale in cui il Vaticano era l’espressione suprema e piena della Chiesa, e si era riconosciuto alla Chiesa di Roma solo il “primato petrino” dell’ultima parola nelle definizioni delle questioni di fede e di morale. Il ché non giustifica, però, che la singola Chiesa locale debba “eseguire” direttive provenienti da Roma su questioni che riguardano la sua vita interna e la moralità dei suoi membri. In effetti, ancora oggi però, su moltissime cose interne, le chiese locali si “sottomettono” al parere di Roma. E la difesa di Barbarin  è perciò coerente con una ecclesiologia piramidale che, di fatto, ancora pervade il nostro modo di essere Chiesa, al di là delle parole scritte.

Il clericalismo è molto più strutturale a questa Chiesa di quanto si creda, e per debellarlo non bastano i provvedimenti giuridici, o un aumento della collegialità, ma si deve davvero cambiare la percezione del nostro essere Chiesa, in cui ci riconosciamo inconsciamente.

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