Si chiamava Don Giuliano Artioli, ma per tutti noi era il Giuli. Lui era il nostro parroco, noi gli adolescenti di una parrocchia appena nata in un quartiere nuovo. Una chiesa di cemento dalla forma che doveva ricordare la tenda nel deserto, ma che sembrava piuttosto un ufo calato sulla pianura Padana, appena dentro le mura della città. Tutto attorno c’erano gli anni Settanta, turbolenti anche in una realtà provinciale come Ferrara.
Il Giuli (rigorosamente con l’articolo, che da quelle parti viene appioppato anche alle persone) non aveva le doti che normalmente si riconoscono ad un grande leader: non aveva lo sguardo fiero, anzi, aveva un occhio di vetro a causa del quale non sapevi mai esattamente dove guardava. Ma lui vedeva dritto dentro i nostri cuori e ci insegnava a fare lo stesso. Non era un grande oratore, ma quando parlava tu pensavi che stava parlando di te e a te personalmente, e che quello che stava dicendo era maledettamente vero. Non aveva l’orgoglio dei vincenti, ma era dotato di un’umiltà infinita, che gli permetteva di vivere le beatitudini come se fosse normale farlo.
Io, con la mia famiglia, ero appena arrivata a Ferrara. Trovai nella Parrocchia dell’Immacolata amici, chiacchiere sul muretto, ma soprattutto esperienze di senso e una comunità. Una comunità che si stava formando, accogliendo tutti coloro che volevano farne parte.
Facevo il liceo e partecipavo a mio modo alle contestazioni e alle ricerche di nuovi riferimenti culturali. Non mi piacevano l’ipocrisia della buona educazione, la freddezza selettiva della scuola, le chiusure e i pregiudizi del mondo “per bene”. Andavo in parrocchia e respiravo libertà, sperimentavo rapporti autentici, vedevo persone, come il Giuli, buone davvero. Erano anni in cui si leggevano i documenti del Concilio e ci si chiedeva come applicarli. Io non ero consapevole di quanto fossero innovative alcune pratiche. Mi sembrava normale che si facesse il campo scuola e che fosse misto. Poi ho scoperto che non lo era proprio per niente, normale, ma intanto quei campi, in una ex scuola del Trentino, fatiscente, piena di ragnatele e con troppo pochi bagni, hanno lasciato un segno indelebile nelle nostre vite.
Mi sembrava normale anche che a 15 anni facessimo catechismo. Il Giuli credeva in noi, o forse più saggiamente credeva ciecamente in Dio padre e nella sua capacità di fare riduzione del danno. La stessa cosa, penso, fecero quei sacerdoti e quei laici dell’Azione Cattolica diocesana, che in quegli anni si stava rifondando, e che coinvolsero me e altri con tutto il nostro incosciente entusiasmo. D’altra parte, senza quella fiducia, non si sarebbe creato quel clima sereno che ci ha permesso di essere comunità. Non mi risulta, comunque, che quei ragazzini, passati nei nostri gruppi (non classi!) di catechismo, siano rimasti traumatizzati.
Mi ricordo invece come i capelli si rizzarono in testa a mio padre quella volta che ci sentì cantare, durante la Messa, “Dio è morto” di Guccini. Protestò col Giuli, che si limitò a sorridere e a dire che ci aveva raccomandato di cantare anche l’ultima strofa, quella in cui Dio risorgeva. L’essenziale era che credessimo nella Resurrezione, il resto era forma. E lui pensava che l’essenziale è più importante dell’apparenza. Mio padre non era molto convinto, ma abbozzò, perché sapeva riconoscere il bene che il Giuli stava facendo ai suoi figli e agli altri del quartiere.
La vita mi ha allontanato presto da Ferrara, e nelle parrocchie che ho frequentato successivamente non sono più riuscita a sentirmi a casa come in quegli anni. Non ritrovato la dimensione della comunità. Ogni tanto tornavo a Ferrara e andavo a Messa all’Immacolata: constatavo che c’era un continuo ricambio generazionale, segno che quegli anni giovanili non erano stati un momento di grazia, ma una tappa di un percorso che è continuato, al di là delle contingenze e del momento storico, a trasmettere la fede e a costruire comunità. Ho visto anche che quanto il Giuli ha lasciato l’incarico di parroco, il suo successore, D. Giovanni non ha avuto problemi ad assumersi la nuova responsabilità: segno che D. Giovanni è bravo, ma anche che il Giuli non aveva lavorato per costruirsi il proprio seguito, ma per costruire una comunità che si raduna nel nome del Signore, e che continua a farlo anche quando cambia il pur amato parroco.
Degli amici che hanno fatto parte di quel gruppo di giovani della parrocchia nascente e dei successivi, molti hanno seguito strade vocazionali non del tutto ordinarie, chi andando a lavorare con i più deboli o poveri, chi in politica, chi scegliendo l’impegno culturale o magari studiando seriamente teologia. Anche questo è un segno della fecondità di un’esperienza.
Ho sempre pensato che non bisogna lasciarsi prendere dalla nostalgia e che bisogna piuttosto guardare avanti. Ma al funerale del Giuli, dentro la chiesa piena in una città semivuota di un venerdì d’agosto, di nostalgia ne ho sentita tanta. In fondo è per lui, per gli altri preti che in quegli anni si sono messi al nostro servizio (come D. Giuseppe Cenacchi e D. Franco Patruno) e per quella comunità così viva, che quarant’anni dopo e vivendo a 500 km di distanza, ancora non riesco a perdere quel po’ di fede che mi è rimasta.