Il piccolo giudice

Una sera in compagnia della reliquia del beato Rosario Livatino, giudice ucciso dalla mafia per la sua fede...
31 Gennaio 2023

Un pomeriggio di pioggia battente, una parrocchia romana che ha di fronte il quartiere di Casal de’ Pazzi, lungo la via Nomentana, e alle spalle una preziosa riserva naturale. La parrocchia è Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, la riserva naturale è la Valle dell’Aniene, il pomeriggio è quello del 18 gennaio scorso, giorno in cui la parrocchia ha ospitato la reliquia del beato Rosario Livatino, giudice antimafia ucciso in odium fidei il 21 settembre del 1990 sulla statale che collega Canicattì con Agrigento.

È quasi sera e fa freddo, eppure la chiesa è strapiena, non solo di adulti, ma anche di ragazzi e di giovani. Evidentemente il “giudice ragazzino”, come fu chiamato in maniera sprezzante dall’allora Presidente della repubblica  Francesco Cossiga, è una figura che interessa e attrae ancora.

Uomo dello Stato ma anche uomo di fede, fu proprio dalla sua visione di fede che trasse l’impegno come magistrato a favore della giustizia. Questo suo aspetto peculiare fu ben colto dalla mafia, come emerse durante il processo penale, visto che veniva chiamato “santocchio” negli ambienti mafiosi che avevano pianificato il suo assassinio, in un primo momento, proprio davanti alla chiesa di san Giuseppe in cui il magistrato si fermava quotidianamente prima di andare al lavoro per un momento di raccoglimento e di preghiera.

Un uomo profondamente mite, come ha ricordato il primo dei due relatori che ne hanno tratteggiato la figura, il prof. Giuseppe Notarstefano, presidente nazionale Azione Cattolica italiana, che ha richiamato i primi anni della sua attività di magistrato  durante i quali continuò l’impegno in parrocchia dove teneva conversazioni giuridiche e pastorali. La sua mitezza lo accompagnò anche negli ultimi, drammatici  istanti della  vita, quando si rivolse ai suoi killer con accenti di profonda umanità e del tutto privi di odio. Le sue ultime parole, riportate da uno degli assassini, furono  di doloroso stupore: “Picciotti, ma che cosa vi ho fatto?“. Quelle parole di verità, profondamente umane e umanizzanti anche per i suoi carnefici, hanno portato due di loro a chiedere perdono.

Notarstefano ha ricordato che Livatino ha lasciato un diario e il testo di due conferenze su fede e giustizia. La sua biografia è stata curata e pubblicata da una persona che lo conosceva bene, Ida Abate,  sua docente di lettere al liceo. Nel testo Livatino viene chiamato “il piccolo giudice” per sottolineare la sua giovane età e la sua mitezza, in contrapposizione con lo sprezzante appellativo attribuitogli di “giudice ragazzino”.

Il motto adottato dal magistrato fin da giovane fu Sub tutela Dei: stare  sotto la tutela di Dio significa essere liberi da ogni altra tutela.

Anche il secondo relatore, dott. Francesco Minisci, già presidente Associazione  nazionale Magistrati e Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, ha sottolineato il profondo legame tra la fede religiosa e l’impegno professionale del magistrato martire. Egli fu un “gigante normale” che dedicò la sua vita alla ricerca della giustizia, pur sapendo che questo gli sarebbe potuto costare molto caro. Non volle rischiare di lasciare vedove e orfani: per questo motivo rifiutò la scorta e probabilmente per lo stesso motivo decise di non sposarsi.

Al suo assassinio assistette casualmente un uomo, Pietro Nava, che passava per motivi di lavoro su quella strada in quel momento. Vide tutto; riconobbe addirittura la pistola utilizzata e il tipo di moto e non volle far finta di niente. Denunciò tutto ai carabinieri e la sua precisa testimonianza consentì l’arresto e la condanna dei responsabili. Anche la sua vita finì in quel momento, sulla statale che da Canicattì porta ad Agrigento, poichè dovette lasciare il lavoro e cambiare ripetutamente identità e domicilio, ma ancora oggi, a più di trent’anni di distanza, dichiara che la sua coscienza non gli avrebbe consentito di fare nient’altro rispetto a ciò che ha fatto, cioè denunciare e testimoniare, anche se questo gli è costato enormemente, al punto da fargli dire che quel giorno sulla statale per Agrigento morirono in due, il giudice Livatino e lui.

Minisci ha evidenziato come la stagione delle stragi di mafia dei primi anni ’90 abbia contribuito a formare una generazione di magistrati che hanno dedicato la loro vita professionale a combattere le organizzazioni criminali. Ha ricordato che dal 1960 al 2015 sono stati 28 i magistrati uccisi nell’esercizio delle proprie funzioni.

La determinazione nella lotta alle organizzazioni criminali ha portato in questi giorni all’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro, arresto che ha significato in qualche modo il compimento di una promessa, come testimonia il biglietto  lasciato  sulla tomba di Giovanni Falcone su cui un anonimo ha scritto: “Ce l’abbiamo fatta Giova’…dopo trent’anni!!!” con la data dell’arresto del boss.

Minisci ha infine evidenziato anche come sia urgente procedere su due fronti: da una parte, diminuire le grandi diseguaglianze sociali, riducendo le sacche di marginalità da sempre brodo di coltura della criminalità e recuperando i legami sociali, e dall’altra, investire sui giovani, offrendo loro validi modelli esistenziali di riferimento  e accompagnandoli nella costruzione della propria vita.

Alla conclusione dell’iniziativa, la Polizia municipale ha prelevato la reliquia, la camicia insanguinata di Livatino, di cui si è svolta la peregrinatio in luoghi significativi per la vita civile e religiosa, testimone  nella sua drammaticità del messaggio che ci lascia questo “piccolo giudice” e che ci portiamo a casa in una   fredda sera d’inverno: “Quando moriremo, non ci sarà chiesto  quanto siamo stati credenti, ma quanto siamo stati credibili”.

 

 

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