Il manifesto programmatico di Zuppi – 4

A mio modo di vedere il riferimento ri-fondativo al Concilio, indicato da Zuppi, mi appare un po’ debole. Per due motivi.
14 Settembre 2022

Ultima riflessione (le altre qui, qui e qui). C’è un passaggio dell’intervista al card. Zuppi che mi convince poco. Parlando della chiusura un po’ autoreferenziale delle comunità cristiane, egli rivendica al sinodo un’opportunità “affinché la Chiesa recuperi una forte passione, come Papa Francesco, a parlare a tutti”. A questo punto dice: “In realtà non si tratta di innovare radicalmente lo stile ecclesiale, ma semplicemente mettere in pratica e declinare le intuizioni che sessant’anni fa già propose il Concilio Vaticano II. Malgrado le turbolenze post conciliari da un lato e le chiusure preconcette di quegli anni, oggi possiamo trarre efficacemente dai testi dei padri conciliari il giusto percorso per camminare insieme”.

A mio modo di vedere, questo riferimento ri-fondativo al Concilio appare un po’ debole. Per due motivi. Intanto perché il concilio è sorto in un periodo socio culturale che non esiste più. Se si rilegge oggi GS (Gaudium et Spes) ci si accorge che quasi metà del documento è dedicato alla descrizione del passaggio dalla società agricola a quella industriale. Tema che per alcune parti del mondo, già negli anni ’60 appariva passato. Perciò poi il testo traeva conseguenze adeguate per la veniente società industriale, che oggi non esiste più.

Basta vedere come il maggiore problema spirituale di fondo venga individuato in GS nell’ateismo. Oggi, dopo aver passato più di un ventennio a fare i conti con l’indifferenza religiosa, siamo, invece in una condizione di “libero mercato” spirituale. Basta vedere, anche, come il tema del popolo di Dio in LG (Lumen Gentium) sia entrato con prepotenza nel concilio, come necessario aggiustamento alle tendenze sociali massificatrici di quei tempi. E infatti, terminati quei tempi, il valore del popolo di Dio, primario rispetto alla gerarchia, è ritornato prontamente nello sfondo ecclesiale.

Basta vedere, ancora, come il concetto conciliare dei “semi del verbo” permetteva certo di smettere di condannare le altre religioni come false, ma è stato spesso interpretato come un “noi abbiamo la verità piena, già tutta dispiegata, e non dobbiamo imparare nulla più!” Perciò oggi, quel concetto non permette ancora di imparare, nel dialogo con altre religioni, la riscoperta di verità cristiane che ci appartengono, ma che nel corso della nostra storia sono finite sullo sfondo della nostra fede.

Questo sarebbe il gancio per riaprire un’amicizia con chi ha altre forme di ricerca spirituale. Perchè oggi le domande sul senso della vita si sono ampiamente riaperte, ma la ricerca di moltissimi si è indirizzata alle forme più svariate di risposta. Il problema spirituale di fondo oggi, per la Chiesa, non è più l’ateismo, ma quale sia la traccia concreta di spiritualità che viene offerta all’uomo post moderno, la quale, per essere ascoltabile, deve avere una molteplicità di forme.

E qui si apre il secondo motivo per cui il riferimento di Zuppi al Vaticano II mi sembra debole: se c’è un lato della vita di fede poco “riletto” dal concilio è proprio quello della spiritualità. Senza una spiritualità adeguata, l’agire pastorale non ha energia, né respiro trascendente. Non si può pretendere una conversione della pastorale, impiantata su una spiritualità non adeguata a quella conversione. Una delle cose che nell’ascolto sinodale mi ha colpito è stata la ripetuta e accorata richiesta di molti credenti, fatta soprattutto ai preti, affinché possano essere accompagnati nel loro percorso spirituale con indicazioni adeguate alla sensibilità, all’antropologia di oggi, e gli vengano offerte forme di spiritualità in sintonia con il loro sentire di fede.

Possibile che dell’enorme e ricchissima tradizione spirituale cristiana non ci sia quasi mai traccia né nei documenti del concilio, né nelle catechesi o nelle omelie? Giusto per fare qualche esempio: quanti hanno sentito parlare di esicasmo? O del metodo ignaziano? O della spiritualità dell’abbandono a Dio? Ma anche di autori più moderni c’è poca traccia: Charles de Foucauld, Madeleine Delbrel, Dietrich Bonhoeffer. Non che queste tracce siano per forza le migliori e le più adatte all’oggi, ma per dire che la tradizione cristiana annovera più di 700 autori, ognuno con una propria traccia spirituale a cui attingere. Una ricchezza enorme che resta nascosta ai più!

Oggi le persone hanno bisogno di tracce operative, concrete, in cui si sentano “riconosciuti” nel loro modo di sentire la trascendenza. E su questo il concilio non ha dato indicazioni, perché allora la questione era un’altra, quella di riaccreditare la fede davanti al razionalismo e allo scientismo ateo moderni. Perciò il riferimento al Concilio non basta più. Da esso possiamo attingere alcune intuizioni, certamente, ma abbiamo bisogno di tornare a scavare nella nostra storia per avere tracce e stili per coltivare una fede non da difendere, ma da vivere in dialogo costante con gli esseri umani.

Forse i testi del concilio su cui tormare a riflettere maggiormente sono altre due costituzioni: Dei Verbum e Sacrosantum Concilium. Sulla forma e lo stile delle celebrazioni liturgiche c’è davvero un interesse critico notevole, per chi ancora le frequenta. Perché lì è evidente come la distanza tra il sentire delle persone e il modo di celebrare fa sì che spesso si esca da questi eventi esattamente come ci si è entrati. Dall’altra parte, l’assenza assordante di una fondazione teologica sulla Parola di Dio è ormai insopportabile. Al massimo qualche prete si avventura a citare il versetto biblico per sostenere la propria visione teologica. Ma è davvero raro oggi che la visione teologica dei credenti, anche di quelli che fanno “odiens”, sia fondata sulla frequentazione assidua, profonda e macinata della Parola.

Se vogliamo tornare a vivere una fede “visibile” ed efficace, non servono le manifestazioni pubbliche contro la legge di turno o a favore del parlamentare di turno. Serve spiritualità vissuta, nutrita dalla Parola, celebrata in modo che lasci traccia esistenziale e non solo ontologica. Serve tempo, pazienza e condivisione. Allora è possibile che si ritrovi la verità di quanto Zuppi dichiara: “la Chiesa italiana è viva, e ha voglia di vivere. Perché è dotata di spiritualità. E perché è immersa nel sociale”.

 

 

2 risposte a “Il manifesto programmatico di Zuppi – 4”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Senza spiritualità adeguata l’agire pastorale non ….arriva al fedele/ laico Di spiritualità oggi c’è bisogno proprio perché il cristianesimo, soggiace all’oscurantismo del tempo di oggi. Es. un prete di di origine africana celebra, nuovo alla lingua ma nell’omelia esprime concetti spirituali della parabola, i suoi gesti sono sensibilmente delicati alti verso la divinità che così si sente viva e Presente’, eppure quanto ci sarebbe bisogno di questo Far sentire Dio Presenza tra i presenti. Forse si dà per scontato una cultura non più bisognosa di espressività, ma di questo sentire, si perso la via, un non conoscere l’uomo che ti sta davanti quale sete lo faccia essere lì. Conseguenza si è partecipato a un rito ma può darsi che si esca di chiesa posando il foglietto raccom.da portare a casa a ricordare il messaggio da mettere in pratica. Gesù Cristo si è spinto fino a bagnare con la sua saliva occhi ciechi!!A tanto si è spinto per far breccia sul l’animo umano!

  2. Pietro Buttiglione ha detto:

    Quante sollecitazioni… Random:
    1) il rif.to alla validità della Dei Verbum di cui NON posso accettare: interpretate la Parola come volete ma l’Unica valida è quella clerico-CC.
    Ma anche qs conferma la tesi di Gil..
    ( x me Zuppi DOVEVA agganciarsi lì..)
    2) OK x spiritualità. Ma xchè non cominciare a parte-cipare TUTTI alle varianti OGGI ben presenti nei vari gruppi laici e religiosi? Nella STESSA parrocchia funzioni tipo CL, Foco, gregoriano, neocat, e ce ne sono tantissime!! Sarebbe già un bel punto di partenza..
    3) la Parola. Il tema + importante &+arduo.
    Perché si tratta di cambiare la testa.
    La mia esperienza rifiuta:
    – chi la traduce come a scuola si faceva la versione in prosa.
    – che la commenta a botta di citazioni..
    non si era detto che nn va letta ‘ad litteram’?
    – chi non riesce a porgerla e condirla per il Volgo, magari usando paroloni e perdendosi in esegesi ( un po’ lo fa Ravasi)
    Insomma chi non la fa VIVERE.

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