Quando ascolto o leggo il Vangelo che narra l’episodio della guarigione del cieco di Betsàida, immancabilmente mi si ripresenta alla memoria la scena di quando mi trovo in uno studio oculistico e il medico, cambiando velocemente i vetri degli occhiali-prova mi chiede: “Ci vede meglio ora o prima?” e “Tra così e così?”, continua a chiedermi sovrapponendo altre lenti alle precedenti.
Così in questo brano evangelico, Gesù, dopo aver cosparso gli occhi del cieco con del fango, ottenuto mescolando alla terra la sua saliva, gli chiede: “Che cosa vedi?” e questi risponde: “Vedo gli uomini, infatti vedo come degli alberi che camminano” (Mc 8, 24).
Certo questa guarigione ci si presenta con il carattere di una particolare stranezza: Cristo, che può guarire i malati anche a distanza con un semplice atto della sua volontà, qui invece tocca due volte gli occhi del cieco. A causa di questa palese stranezza, siamo costretti a trattare questo episodio allo stesso modo di come trattiamo l’episodio della maledizione del fico: cioè c’è dentro un insegnamento non verbale che va desunto dai gesti del Maestro.
La guarigione del cieco di Betsàida che avviene in due tempi, e questo è un fatto unico in tutto il Vangelo: si presta a simboleggiare il viaggio della fede, che avviene progressivamente e non senza esitazioni. Gesù compie un segno di grande significato simbolico: quel recuperare la vista in modo progressivo, simboleggia il cammino graduale dei discepoli – e quindi anche nostro – della guarigione dalla nostra cecità fino ad arrivare alla confessione completa di Gesù quale “Figlio di Dio”. La conversione non è qualcosa di istantaneo. Serve sempre tempo e molteplici interventi della grazia.
“Vedo gli uomini”, egli dice e aggiunge: “Infatti vedo come degli alberi che camminano” (Mc 8, 24). Mentre il peccato ci fa ripiegare su noi stessi, ci rende egoisti e chiusi nei confronti del prossimo, quando accogliamo la grazia del Signore, questa, oltre ad aprirci gli occhi su noi stessi, facendo verità dentro di noi, ci fa accorgere degli altri, ci apre agli altri, ci fa “vedere” gli altri.
Quando ci apriamo a Cristo, ci apriamo anche ai fratelli. Magari all’inizio non li amiamo con perfezione, ma intanto cominciamo già a vederli. Come nella ruota di una bicicletta, più i raggi si avvicinano al fulcro, più si avvicinano tra di loro e, viceversa, più si allontanano dal centro, più si allontanano tra di loro. Cristo è il perno della nostra vita e della nostra storia, più ci avviciniamo a Lui più ci avviciniamo tra di noi.
Convertirsi significa cambiare direzione nel cammino della vita: non, però, con un piccolo aggiustamento, ma con una vera e propria inversione di marcia. Con la conversione si punta alla misura alta della vita cristiana, ci si affida al Vangelo vivente, che è Cristo Gesù. È la sua persona la meta finale e il senso profondo della conversione.
In tal modo la conversione manifesta il suo volto più splendido e affascinante: non è una semplice decisione morale, che rettifica la nostra condotta di vita, ma è una scelta di fede, che ci coinvolge interamente nella comunione intima con la persona viva e concreta di Gesù. La conversione è il “sì” totale di chi consegna la propria esistenza al Vangelo, rispondendo liberamente a Cristo che per primo si offre all’uomo come via, verità e vita, come colui che solo lo libera e lo salva.
Il “convertitevi e credete al vangelo” non sta solo all’inizio della vita cristiana, ma ne accompagna tutti i passi. Ogni giorno, infatti, è momento favorevole e di grazia, anche quando non mancano le difficoltà e le fatiche, le stanchezze e le cadute. Ogni giorno siamo chiamati a consegnarci a Gesù, ad avere fiducia in Lui, a rimanere in Lui, a condividerne lo stile di vita, ad imparare da Lui l’amore vero, a seguirlo nel compimento quotidiano della volontà del Padre, l’unica grande legge di vita.