Conigli,pecore e delfini

Conigli ,pecore e delfini
9 Novembre 2018

Nella riflessione teologica l’idea che la Chiesa sia per sua natura missionaria ha radici lunghe. Ma la storia si è incaricata più volte di dimostrarci che questa idea sia come un fiume carsico, che affiora in modo evidente solo di tanto in tanto. Però, nelle sue varie risorgive, si fatica a riconoscere che si tratti tutte le volte del medesimo fiume. Perché sia in termini di obiettivi, sia in termini di strumenti e di metodi, le varie epoche della storia della Chiesa mostrano come davvero ci siano state missioni e missioni.

Ma se resta vero che la fede si da solo se missionaria, allora si potrebbe quasi dire che esistono fedi e fedi, diverse nelle loro fenomenologie, al di là della radice comune, che hanno fatto da sfondo significante e anche giustificante per missioni molto, ma molto diverse tra loro. Perciò quando ci chiediamo se e quale missione sia finita, implicitamente ci chiediamo anche se e quale fede sia morta. Ed eventualmente quale fede stia risorgendo, e quindi anche quale missione, che forse, proprio sotto i nostri occhi, oggi sta nascendo e non riusciamo a vederla.

Credo, ad esempio, che sia abbastanza facile vedere come una fede piuttosto “difensiva” stia alzando la voce in occidente, convinta che l’obiettivo primario del cristianesimo di oggi debba essere quello di appagare il bisogno di difendersi dagli acidi del relativismo e della secolarizzazione avanzata. Una fede discretamente “interessata”, cioè vissuta come strumento per mascherare la fatica di definire una propria identità personale e culturale, all’interno di un contesto percepito come “ostile”, in cui il centro del cristianesimo è rinvenuto nella possibilità di ottenere “sicurezza” dalla fede stessa.

Ovviamente qui “missione” è un termine molto utilizzato ed importante. Indica la necessità di ripristinare presso il mondo intero, e presso quella parte di Chiesa che si è “persa”, una immagine di cristianesimo che è stata smarrita o frantumata da una post – modernità che sembra essere sfuggita alle mani di Dio, e da chi ha “deviato” su una fede annacquata e liquida. Significa essenzialmente sconfiggere il nemico, soppiantarlo nella sua presa di potere sul mondo, nella assegnazione del senso della vita e far risplendere i fasti di un cristianesimo abbastanza trionfante nella sue certezze granitiche e immutabili. Personalmente ho l’impressione che chi vive così sia, spesso, un cristiano che nel profondo è un po’ “coniglio”, che vive di paura e, a volte si traveste da “tigre” o da “iena” solo per esorcizzare i timori della catastrofe imminente.

C’è poi, almeno in occidente, una fede discretamente “conformista”, fatta essenzialmente di riti da celebrare, regole da rispettare, usi e costumi da mantenere, in cui sembra che il bisogno essenziale a cui il cristianesimo risponde sia quello di poter appartenere alla “comunità” del bene, perché ciò conferisce senso alla vita del credente. Non di rado è anche una fede un po’ “legalista” in cui il sabato viene sempre prima dell’uomo, perché il bisogno di mantenere l’ordine colora di sé tutta l’esperienza cristiana.

In questo caso “missione” è un termine poco rilevante e poco frequentato, se non come l’esigenza di far rispettare l’ordine della cose per stare nella formulazione stabilita della verità. La fede deve solo auto preservarsi. Agli altri ci penserà Dio. Un atteggiamento un po’ da “pecora”, convinti che alla fine l’uomo sia sempre uguale e che l’ordine, poi, avrà la meglio. Fedeli, insomma, un po’ “formichine” che svolgono il proprio compito prestabilito senza troppo alzare lo sguardo e farsi domande.

Ma trovo anche una fede che tende ad essere “altruista”, direi. Una fede cioè che è principalmente tesa a promuovere il bene dell’altro, anche quando si mette a rischio la propria identità e la propria formulazione della verità, convinta che l’identità del cristianesimo sia inclusiva e non esclusiva e che la verità sia sinfonica (cioè davvero cattolica) e non monolitica. Insomma una fede della “gratuità”, in cui l’obiettivo essenziale del cristiano è quello di spendersi per chiunque, in nome di Gesù, offrendo non tanto una parte della propria vita, ma tutto sé stesso, convinti che questo sia il modo più alto di ringraziare quel Dio che ci ha creati e redenti gratuitamente, dandoci tutto sé stesso.

Qui il termine missione torna ad avere una valenza molto rilevante, senza mai che diventi proselitismo o “vittoria” sull’altro. Piuttosto invece, la si intende come luogo di crescita della fede stessa, perché nell’annuncio del vangelo ne ritorna la percezione che lì, Dio era già in qualche modo parzialmente presente. E perciò lascia a Lui sul serio l’esito finale della missione stessa, riservando a sé il solo compito evangelico di essere “voce”, per poi ritrovarsi “servi inutili”. Una missione, quindi, che diventa sinonimo di fede, perché l’obiettivo di una è lo stesso dell’altra: offrire sé stessi agli altri. Ben lungi dal voler vincere sugli altri, qui è la disponibilità a lasciarsi lavorare da Dio ad essere essenziale, anche quando questo possa significare la morte e la scomparsa della comunità di fede. Forse l’icona di questo modello di missione sono i monaci di Tibhirine: una comunità di “delfini” altruisti, che sa percepire la verità dell’altro e aiutarlo nella sua ricerca di Dio, senza volerlo comandare, fino a morire per l’altro.

Forse alcune missioni stanno davvero morendo, ma altre stanno provando a risorgere.

 

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