Tra tutti gli animali che il Buon Dio ha creato, personalmente ho una predilezione per gli uccelli. Forse è per questa mia naturale simpatia per queste creature (ampiamente ricambiata) che viene spontaneo paragonare la nostra vita claustrale alla loro vita. Il paragone può sembrare paradossale se si considera che gli uccelli volano liberi nel cielo e noi trascorriamo invece l’esistenza in clausura.
Ma cos’è la libertà? “ Dio ci ha chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri” (Gal 5, 13). Esiste una libertà “da” e una libertà “per”. Libertà dalle varie schiavitù e dai vari idoli ai quali il nostro cuore è sempre pronto ad attaccarsi. E libertà “per”, cioè “in funzione di” un amore universale, che abbraccia tutti, che tutti ama con il cuore di Cristo, che in tutti vede dei fratelli e delle sorelle da amare.
La più alta e bella espressione della libertà è il dono totale di sé. Dono concretizzato da ciascuno in modo diverso, in base alla propria vocazione. Va da sé che i Monasteri non sono un luogo di rifugio per persone deluse dalla vita, ma essi accolgono persone libere e felici o comunque incamminate verso la conquista della piena libertà, cioè incamminate verso il raggiungimento di ciò che solo ci rende liberi. Questo è indubbiamente un dono di Dio, che però richiede anche desiderio, collaborazione, impegno, accoglienza da parte nostra.
Ma l’altro motivo che, a parer mio, accomuna la nostra vocazione a quella degli uccelli del cielo, è che essi non si preoccupano di nulla, ma sono pienamente occupati nella lode di Dio. Questo è il nostro compito: lodare Dio, a Lui cantare, accoglierlo cantando quando Lui verrà. Sono convinta che il canto, e la musica in genere, conduca in modo speciale a Dio. “Chi canta, prega due volte” , diceva il grande S. Agostino. Amo pensare che in Paradiso ci sarà un posto riservato ai musicisti e ai cantori, che con le loro melodie hanno aiutato il prossimo ad elevare il cuore a Dio che, oltre ad essere Amore, è anche Bellezza, Poesia, Musica, Arte, ed è la fonte e l’ispiratore di tutte queste cose. (Certo anche gli stonati hanno diritto di andare in Paradiso, ma suppongo… e spero… che per essi l’eterno Padre abbia provveduto un luogo debitamente insonorizzato…).
Liberi e sereni, privi di ansia e preoccupazioni varie, gli uccelli trascorrono il tempo cantando, non hanno un’altra funzione. Altri animali sono da noi ritenuti più utili, perché da essi traiamo latte, lana, pelle, ecc… ma come sarebbe triste il mondo senza il melodioso e gaio cinguettio degli uccelli che mette tanta allegria. Lo stesso dicasi per la vita claustrale che lo Spirito Santo ha suscitato per ricordare a tutti i cristiani che la Chiesa è sposa di Cristo, una sposa innamorata che attende con gioia e con amore la venuta dello Sposo.
Conoscete il detto: “Si muore come si è vissuti”? Ebbene, se è vero, spero proprio di poter morire cantando.
San Francesco predicava agli uccelli…
Questo articolo mi suona come una predica sugli uccelli, che propone in modo gentile e poetico una sorta di apologia della “libertà claustrale”.
Un linguaggio che ancora favorisce un’idea romantica, disincarnata e idealizzata
della forma di vita clariana, ma direi della fede.
E non è musica per le mie orecchie.
Ma voglio pensare, come dice Sergio, alla gioia profonda che ha animato sr. Cristiana,
e lì mi fermo.
Il canto eleva il nostro spirito e lo conduce alla presenza di Dio.
Il canto è preghiera.
Bisogna mettere le ali per cantare.
Lasciare le cose della terra per avvicinarci a quelle del cielo.
È un’ascesa faticosa ma necessaria.
Solo così si raggiunge la libertà dei figli di Dio.
Figli che hanno la gioia nel cuore e la distribuiscono nel mondo.
Chi avrà portato gioia agli altri la riceverà.
Siate liberi e gioiosi come sono gli uccelli del cielo dunque.
Sollevatevi su ali nuove e incominciate il viaggio più bello della vostra vita!
Suora!
Il suo msg + bello!
Anche quel cenno alla libertà che io sono solito indicare con libertà
DA// DI .. E Lei
DA// PER..
BELLO!
Credo che per amare gli uccellini, quelli che nei primi giorni di caccia vengono STERMINATI, basti tenerne uno tra le mani, sentire i palpiti impazziti di paura del suo cuoricino…
Poi mi sono sempre chiesto il perché del loro canto…
So bene che quel merlo sta dicendo a tutti, dall’alto di quell’albero:
QUI COMANDO IOO!!! Pussate via!
Ma so anche che quando io cerco di riscontrare il suo canto.. lui cerca di insegnarmi a cantare, conscio della povertà del mi fischiare .. ne sono certo.
Ma dove abito adesso invece di merli ho un usignolo che mi sveglia la mattina.
L’unico modo in cui riesco ad inquadrare il suo canto è la sua partecipazione al più profondo significato della musica:
il t r a s c e n d e n t e, sive Deus.
Ho diverse amiche religiose, tra cui alcune monache di clausura, e devo dire che esse mi rimandano una vita religiosa più problematizzata, meno ” tutto gioia e amore sorridente”, dove non ci sono solo persone “libere e felici” sette giorni su sette (e sì, ci sono anche persone che cercano nel monastero un rifugio, che spesso vengono poi guidate su altre strade, ma non sempre). Questo per dire che, pur rispettando la restituzione che fa Cristiana, indubbiamente animata da profonda gioia, mi pare sia molto più corrispondente all’umano e meno apologetico mettere in rilievo anche il lato faticoso, accidentato, in salita della vita religiosa, perfino quando ci sono i momenti più o meno lunghi di tristezza, di dubbio, di smarrimento (perchè no?), o quando la vita comune pesa (“la vita comunitaria è la più grande penitenza” mi diceva una cara amica suora). Forse oggi è più eloquente una testimonianza che abbracci l’umano nella sua totalità.
Grazie, carissimo Sergio per questa replica, mi preme però precisare il mio pensiero. La mia vita non è stata esente da prove di vario genere, vedo però nella prova, nella tribolazione e nelle fatiche una “sfida”, un’occasione per dare il meglio di noi stessi, sorretti dalla Grazia di Dio. La prova è il momento della verità di ciò che fino a quel momento abbiamo professato con le labbra. Solo perché ho avuto la grazia di soffrire, posso parlare di gioia: la mia gioia è Cristo. Ed è una gioia molto profonda che le prove non possono scalfire, non ne hanno il potere, magari talvolta, come succede osservando il mare, le onde saranno un po’ increspate in superficie, ma nel profondo regna la quiete. Del resto, la lettera nella quale S. Paolo esorta i cristiani alla gioia, e la nomina ben sedici volte, l’ha scritta proprio mentre era in catene per Cristo e, umanamente, non aveva nessun motivo per essere contento.