XXIX domenica del tempo ordinario: Mc 10,35-45
SERVIRE E DARE LA VITA (Emanuele Luzzati, 1985, per il libro Un rabbi che amava i banchetti di Enzo Bianchi, ed. Marietti)
Ogni tanto, anche lontano dalla Quaresima, è salutare mettersi davanti al crocifisso… giusto per rinfrescare che il Figlio dell’uomo è venuto per dare la vita.
Quella morte non è stata cosa lieve. Eppure un artista visionario è riuscito nell’impresa di trasfigurarla, di toglierle peso, facendo pensare che – al di là del dolore – nascondesse una felicità. Perché serviva a qualcosa. Così recita il testo di Enzo Bianchi che accompagna l’immagine: «Noi dobbiamo cercare di vedere la morte di Gesù non solo con i nostri occhi ma con gli occhi di Dio. Gesù fisicamente piangeva, urlava, ma nel suo spirito danzava di gioia perché l’uomo era da lui riconciliato con Dio. In tre anni era riuscito a spiegare chi era Dio, almeno a quelli che avevano vissuto con lui, dicendo loro: “Il vostro Papà che è nei cieli, il vostro vero Papà, è uno che dà la vita per voi”».
«Nel suo spirito danzava di gioia» dice quale debba essere lo spirito del servizio. Che, se è solo incentrato sul sacrificio, sulla strada in salita, sulla fatica dell’essere cristiano, non può che indurre a misurare la fede dalla quantità di sofferenza patita.
Invece sarebbe più utile un termometro per misurare la temperatura dello spirito: per verificare, cioè, l’entusiasmo verso Dio e i fratelli, la voglia di vivere la vita e di impegnarsi a fare del proprio meglio. In altre parole, la temperatura che hanno Gesù e Zaccheo nel loro incontro, quando uno ha voglia di far festa e si autoinvita a casa dell’altro senza porre condizioni; e l’altro, dopo aver regalato ai poveri la metà dei propri averi, restituisce ciò che ha rubato moltiplicato per quattro. O la temperatura di Gesù e dell’adultera, schiacciata dalla colpa e da chi la incolpa, quando lui la rimette in piedi facendola sentire leggera col perdono (e chiedendole di non peccare più)…
Non ci sembri leggero, questo Gesù sorridente di Luzzati. Ci aiuti semmai a capire che di leggerezza, di agilità e di scioltezza c’è bisogno, quando ci si vuole far carico della croce di un altro. O quando si dà il perdono, regalo assoluto che non chiede nulla in cambio perché non rientra nella giustizia.
Eppure il perdono è sempre temuto: si pensa di compiere «una leggerezza» o si ha l’impressione di darlo «a cuor leggero» a un insolvente («Ma come? Se la cava così, senza pagare?»). E si perde tempo a disquisire su fino a che punto sia lecito spingersi, su chi debba fare il primo passo, su quali condizioni porre, sulle tappe per arrivarci gradualmente… Per cui il perdono finisce per sembrare un atto catastale a Roma, cioè qualcosa di pesantissimo e di lentissimo, e alla fine viene percepito come una concessione. Mentre si dovrebbe essere capaci di darlo e basta, con un gesto atletico, dicendo le parole più liberanti che ci siano: «Non mi devi nulla». Un gesto imparato sì negli allenamenti quaresimali, ma da fare in scioltezza nel giorno della partita. Col pensiero rivolto non alla fatica ma al gioco, alla bellezza del rientrare in relazione, al desiderio di vita nuova, alla gioia di dire: «Ora siamo più leggeri tutti e due».
C’è da imparare, infine, a perdonare col sorriso, uscendo da un cliché di seriosità e di sofferenza. Come insegna il Gesù di Luzzati, che ha un avo illustre nel Cristo crocifisso dell’Abbazia di Lérins, sull’isola di Saint Honorat.