La forzata quarantena di questi giorni obbliga a riflettere su domande che altrimenti, forse, non ci saremmo posti. I preti celebrano da soli e con vari strumenti cercano di rendersi presenti anche in questo atto ai fedeli delle loro comunità. In ciò può esserci già un primo risultato: anche a livello popolare, per la quarantena si può comprendere che il prete non celebra mai per sé stesso, ma “per Cristo, con Cristo e in Cristo a te Dio padre onnipotente…”. E dato che la Chiesa è il corpo mistico di Cristo, allora lui celebra sempre per la Chiesa, con la Chiesa e nella Chiesa “a te Dio padre onnipotente.”
Essere corpo “mistico”, significa che noi siamo “una cosa sola” anche quando concretamente non siamo una compagine di persone organicamente legate tra di loro da relazioni fisiche. Il corpo “mistico” continua ad esistere anche se ognuno di noi vive nella propria casa, e individualmente vive la sua propria intenzione di essere offerta “a te Dio padre onnipotente”. Il prete, anche celebrando da solo, intercetta “misticamente” queste intenzioni dei fedeli a lui affidati, e le riassume nella sua offerta “sacramentale”.
Come mai, però, questa forte necessità di celebrare “in presenza” del popolo, che fedeli e preti oggi avvertono come esigenza e desiderio? Perché, il popolo di Dio deve essere radunato, quando si celebra? Che cosa permette al popolo di Dio di diventare Corpo di Cristo, non solo mistico, ma materialmente presente? Credo che questa quarantena ci permetta di capire come, questa domanda richieda, per sua natura, una risposta fatta a gradi progressivi.
Il livello “basic”, fondativo, essenziale, che ci rende materialmente “corpo reale” di Cristo è l’accesso di ognuno al “corpo eucaristico”. A questo livello il popolo di Dio è radunato quando mangia, si nutre del corpo di Cristo nella sua “presenza reale”. Ma se bastasse questo alla pienezza della messa, nella quarantena sarebbe stato possibile seguire la celebrazione da casa via tv, o simili, e poi accedere uno ad uno all’eucarestia posta sull’altare, durante la giornata, in modo da non costituire rischi di contagio per sé e per altri.
Se la Chiesa non ha fatto questa scelta non è perché si è inchinata ai voleri dello stato e nemmeno perché non ha avuto abbastanza fede nel fatto che “Cristo non contagia”. Purtroppo la realtà si è già incaricata di dimostrare il contrario. La Chiesa non lo ha fatto perché sa, da sempre, che questo livello “basic” non basta a far si che il popolo di Dio diventi “realmente” e pienamente corpo di Cristo. Se fosse così, la messa potrebbe essere vissuta dai singoli fedeli, come un servizio religioso individuale in cui ciascuno incontra “realmente” Cristo, senza che ciò tiri in ballo l’incontro con i fratelli. Di fatto, purtroppo, credo che questo sia il modo ordinario, fuori dalla quarantena, di partecipare alla messa di molti fedeli.
Non basta al senso pieno della messa perché, nel momento in cui mi nutro del corpo di Cristo, e divento realmente “uno” con lui, mi nutro anche del suo corpo che è la Chiesa e divento realmente “uno” con tutti coloro che lo compongono. La relazione reale, fisica, con gli altri è strutturalmente costitutiva dell’essere corpo di Cristo, se non vogliamo che resti sempre e solo “corpo mistico”. “Fare la comunione” (mangiare l’osta) è fare la comunione (essere “uno” con gli altri).
Per questo sentiamo necessario almeno un livello “intermedio”, in cui il livello “basic” si esprime istintivamente: partecipare attivamente alla messa intervenendo nel rito. Cantare, rispondere al celebrante, leggere le letture, distribuire l’eucarestia, sono certo atti di partecipazione reale e fisica che denotano una maggiore “presenza reale” del popolo di Dio. E magari questo fosse sempre così presente nelle messe ordinarie, fuori dalla quarantena! Anche qui, purtroppo, credo che la metà delle messe celebrate abbiano un livello di partecipazione davvero scarso. In ogni caso, questo livello intermedio sarebbe comunque stato possibile anche nella quarantena, via skype o simili. Come mai la Chiesa non ha scelto questa forma, ma ha deciso di non celebrare più con il popolo? Come mai nemmeno questo è sufficiente perché il popolo di Dio diventi “realmente” e pienamente corpo di Cristo?
La Chiesa sa, da sempre, che il senso pieno del “fare la comunione” sta nella parole non sue, ma di Cristo: “questo è il mio corpo offerto per voi”. Il livello “culmine”, che perciò diventa fonte della vita cristiana, sta nella realizzazione fisica di questa offerta di sé. Se non vogliamo che queste parole restino un’idea e siano percepite come una favola, cosa che già accade, la celebrazione deve avere già in sé i segni della “presenza reale” del corpo di ognuno di noi che si offre agli altri. Deve, cioè, prescrivere che i miei cinque sensi percepiscano la presenza degli altri e la mia intenzione d’amore si traduca in gesti fisici di offerta di me stesso agli altri. Altrimenti la messa viene tradita nel suo significato più pieno.
E allora però chiedo: basta lo “scambiatevi un segno di pace” o il “soldino” nella questua? Ma ancora di più, per coerenza, che senso resta del prete che celebra da solo?