Guai a tenersi per sé

«Non vi chiamo più servi… Vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi»
6 Maggio 2018

VI domenica di Pasqua: Gv 15,9-17

L’ICONA DELL’AMICIZIA (VII secolo, icona della Chiesa copta proveniente dalla zona di Bawit, in Egitto, ora a Parigi, Louvre)

 

Dopo il bel pastore e la vite vera, è l’amico la terza immagine – scelta dalla liturgia nel Vangelo di Giovanni – per far capire quale sia il tipo di relazione desiderato dal Signore.

Ci viene in aiuto un’antica icona, portata oggi in pellegrinaggio dalla comunità di Taizé, dove Gesù – rappresentato con San Mena, abate del monastero di Alessandria – appoggia la mano sulla spalla dell’amico. Un gesto di pura immaginazione, col pregio di mettere i due personaggi sullo stesso piano. E di far vedere un Gesù caloroso, non anaffettivo, senza timore di toccare l’amico e senza volontà di piazzarsi un gradino sopra (sebbene lui sia ben più di un gradino sopra). Un Gesù con la stessa premura di Pietro quando rimette in piedi il centurione Cornelio, inginocchiatosi davanti a lui, e gli dice: «Àlzati: anche io sono un uomo!» (At 10,26).

Si può pure raccontare – come fanno coloro che presentano l’icona – quanto siano significative le orecchie grandi (per dare ascolto) e le bocche piccole (per parlare con prudenza), oltre agli occhi grandi (per avere uno sguardo nuovo) e al lieve strabismo (per tenersi meglio d’occhio). Sono, però, dei dettagli appena percepibili, rispetto a ciò che si coglie subito (e che forse ha persino più valore): il braccio di Gesù, capace di avvicinare e di stringere a sé («Un abbraccio vale più di mille like», ha detto il padre di Beatrice, una quindicenne che un mese fa si è tolta la vita a Torino, forse anche a causa di chi non le è stato abbastanza amico).

Più che nell’icona, è nei Vangeli che Gesù, in particolare nei suoi ultimi giorni, dà modo di meditare su cosa sia l’amicizia. Anzitutto quando, prima di ridare vita a Lazzaro, scoppia a piangere («Guarda come lo amava!», notano i Giudei). Più avanti, il Signore ricorda i doni preziosi che si fanno all’amico: la disponibilità a dare la vita per lui («Nessuno ha un amore più grande di questo») e la fiducia («Tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi»). Cioè l’impegno a mettere in comune ogni informazione – senza censure, sia totali che parziali – poiché si stima l’amico all’altezza di capire, di valutare e di apprezzare. Ogni amico è per noi importante, anche se non è Gesù…

Tuttavia i Vangeli mostrano che, a questi due picchi di amicizia, seguono due cadute. La prima delle quali si verifica durante la cattura nell’orto, quando Gesù, incontrando Giuda, lo chiama «amico» (Mt 26). E – nello stesso istante – fa esperienza dell’ambiguità dei segni, se un bacio può servire non a dire affetto ma a consegnare alle guardie.

L’altro tonfo avviene nel corso del processo (Lc 23), nel momento in cui Pilato rinvia Gesù, in quanto galileo, a Erode e, da allora, il re e il procuratore diventano amici («prima infatti tra loro vi era stata inimicizia»). Viene qui messa in luce la faccia nascosta dell’amicizia, da cui guardarsi: quella calcolatrice, che si regge sull’adulazione e sullo scambio di favori… invece che sulla franchezza, sulla partecipazione alle sofferenze dell’altro e sul dono disinteressato.

Senza sane fondamenta non sta in piedi, l’amicizia. E ha bisogno di manutenzione e di consolidamento, per tenere sempre alte la qualità e la fedeltà. In fondo al brano odierno, come nel discorso della vite e dei tralci, torna il verbo rimanere: che il Signore conosca le tentazioni umane di non condividere e di dividersi alle prime difficoltà?

 

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