Devo incontrare i genitori dei bambini che si preparano per la Messa di Prima Comunione e sto ancora rimuginando su come affrontare il problema apertosi qualche giorno fa, durante la chiacchierata sulla Messa con il mio piccolo amico (link all’articolo). Per cercare di prepararmi meglio mi confronto con le catechiste dei vari gruppi, chiedo quali argomenti stanno sviluppando, quale messaggio sentono più urgente condividere con le famiglie. La richiesta è univoca:
“Mi raccomando, devi sottolineare che il cammino non finisce con la festa di quel giorno! I genitori devono assumersi le loro responsabilità, impegnarsi, che poi non capiti come il solito, che passata l’estate in chiesa la domenica ne vediamo solo la metà!”
“Devono capire che partecipare alla Messa non è un optional, lo devi dire chiaro!”
Va bene, ho capito, sarò chiarissima. Dura, direi spietata…
Cari genitori, questo è il nostro incontro conclusivo, prima della festa che ci attende. In questo percorso abbiamo parlato insieme del mistero eucaristico, della presenza reale di Gesù Cristo nelle specie consacrate, ma anche della Sua presenza nei modi narrati da Sacrosantum Concilium (n. 7), dei simboli che si intrecciano nel sacramento. Oggi, per salutarvi, vorrei proporvi il confronto con una pagina evangelica:
il brano delle nozze di Cana (Gv 2,1-12).
Inizia con una precisa indicazione temporale, tre giorni dopo: è chiara l’allusione al terzo giorno, giorno della trasformazione della morte in vita, ma se ci confrontiamo con la scansione presente nei brani precedenti (Gv 1,19-51), scopriamo anche come la somma dei giorni elencati dall’evangelista collochi gli avvenimenti al settimo giorno, il giorno della festa.
Si tratta proprio di un momento speciale, come sappiamo è un matrimonio. Ma c’è qualcosa che lo rende ancora più unico: in quel matrimonio c’è Gesù. Tutti sono allegri, mangiano, cantano, scherzano. Ma inaspettatamente il vino finisce: nel matrimonio non c’è più il vino frizzante della gioia. È la madre che se ne accorge. Si rivolge quindi al figlio, ma Gesù le chiede: “che cosa c’è tra me e te, donna?” Che relazione c’è tra Gesù e la madre? Lo vediamo dalla risposta di Maria: la relazione è di fiducia, o meglio di fede, apertura accogliente verso l’altro, che fa sì che Maria, senza dubitare, dica ai servi: “fate quello che vi dirà”.
Sei sono le giare che si trovano lì, servono per immergervi le mani e lavarsi, cioè purificarsi prima di mettersi a tavola. Possono contenere ciascuna tra gli 80 e i 120 litri, ma in quel momento sono vuote: l’acqua che le riempiva è stata utilizzata dagli ospiti prima del pasto. Gesù chiede di riempirle. Non c’è il rubinetto, è un lavoro, che chiede di andare al pozzo, prendere un secchio di acqua, versarlo nella giara, ritornare al pozzo…
L’acqua di sei giorni, nel settimo giorno, nel giorno della festa, l’acqua della nostra quotidianità, l’acqua del nostro lavoro, l’acqua stanca dell’abitudine, l’acqua salata delle nostre lacrime, viene trasformata dalla Parola di Gesù nel vino della gioia, trasfigurata per renderci felici. È il senso della festa. Ed è il senso dell’Eucaristia, culmine et fonte della vita cristiana, nella quale portiamo tutti noi stessi all’altare perché il Signore trasformi la nostra vita secondo la sua logica.
Questa trasformazione della nostra vita avviene, durante l’Eucaristia e grazie ad essa avviene davvero.
È lecito però chiederci: come? Per un miracolo eclatante? Attraverso eventi forti e straordinari?
No, avviene nella normalità della celebrazione, attraverso il dono di parole e di gesti che, grazie allo Spirito, sono in grado di trasformarci. Voglio condividerne solo uno, augurandomi che non si spenga il desiderio di scoprire gli altri tesori raccolti in ogni Messa.
In una vita di coppia capita, qualche volta, di scontrarsi, per i figli, per la gestione del denaro, per i mille e mille motivi che segnano la quotidianità. Tante volte questi attriti ci accompagnano fino in chiesa: anche a me capita di ritrovarmi lì, seduta accanto a mio marito, e di non riuscire a cogliere nulla di quanto viene proclamato, perché la mia mente rimugina insistentemente un problema, sento montare l’irrequietezza, l’ansia di difendere le mie ragioni, e mi riprometto, appena fuori, di riprendere la discussione che abbiamo interrotto nell’uscire di casa.
Ma poi, ad un certo punto della celebrazione, il prete ha la strana abitudine di pronunciare quelle parole, che non ho mai sentito con tanta forza: “Scambiatevi un segno di pace”… e io sento risuonare nella mia testa, in mezzo al turbinio dei pensieri, il Vangelo: “Se stai per presentare la tua offerta all’altare… vai prima a riconciliarti col tuo fratello” (Mt 5,20-26).
E adesso? Ho solo due scelte: o non do la pace a mio marito (ma allora, cosa ci faccio qui?) o gliela do, ma sul serio, lasciando cadere la rabbia e il rancore e il desiderio di aver ragione, gliela dono e basta. Così faccio pace, in me e con lui. Quando usciamo di chiesa, naturalmente, i problemi non sono spariti, mi aspettano lì, ma sono io che sono cambiata, non ho bisogno di vincere, né di rivendicare, posso parlare con serenità, e nella serenità sono già a buon punto per una soluzione.
Ditemi, quale altro posto al mondo esiste in cui, a prescindere, ci venga chiesto di fare pace? Ci venga donata la forza per fare pace? Senza chiederci giustificazioni, senza pretendere contraccambi, senza condizioni? Uno spazio di pacificazione, attraverso il quale vivere può davvero essere Eucaristia (che in greco poi vuole dire ringraziamento)?
Secondo voi, in un posto così, ad un appuntamento così, si va per forza, per obbligo, per obbedire a un precetto?