ANNO C – III DOMENICA DI AVVENTO – Lc 3, 10-18
Le prime due domeniche di questo avvento ci hanno consegnato indicazioni per prepararci al Natale sul piano del rapporto con la storia (1 dicembre), e del rapporto con Dio (8 dicembre). Oggi lo sguardo della Parola si sposta sul rapporto con gli altri, in termini di giustizia sociale, per mostrarne la radice di fede.
Compare sulla scena uno dei personaggi tipici dell’avvento, Giovanni Battista. Coetaneo di Gesù e suo parente stretto, appare nel deserto a proporre un battesimo per la liberazione dai peccati. Ciò produce l’accorrere delle “folle” (v. 10), segno che Giovanni intercetta un bisogno diffuso tra le gente, quello dell’attesa del “consacrato”. Il mantra della speranza ebraica dell’A.T., dall’esilio assiro babilonese in poi, cioè che Jaweh avrebbe mandato un liberatore, al tempo di Giovanni pare sia prossimo a realizzarsi, generando una speranza che mette in moto e al tempo stesso inquieta l’animo degli Ebrei.
Giovanni, quindi, da corpo e concretezza a questa speranza. E ciò spiega la domanda delle folle: “Dunque, cosa facciamo?” (v. 10), una domanda che punta all’azione effettiva, affinché quella speranza possa realizzarsi davvero. La risposta di Giovanni non si fa attendere, in tre indicazioni molto concrete: condivisione umana a partire dai bisogni essenziali (v. 11), giustizia sociale nel rispetto delle leggi (v. 13) e recupero di una coscienza morale per il rispetto delle persone (v. 14).
Ma Giovanni non vuole che ci siano fraintendimenti sulla sua persona e chiarisce che lui è qui solo per “preparare la via” (v. Lc 3,4), perché “viene il più forte” di lui (v. 16). Queste indicazioni concrete, quindi, sono solo la preparazione possibile, affinché quella speranza possa davvero realizzarsi, un modo per esprimere il proprio desiderio di essere perdonati. Quando “il più forte” verrà, quella speranza sarà realizzata in una forma che darà pienezza a quelle indicazioni concrete, andando oltre esse, in una assunzione che le valorizzerà al massimo, dando loro un significato inatteso e trascendente: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).
Una prima riflessione è inevitabile. Magari oggi fossimo in una condizione in cui la condivisione, la giustizia sociale e la moralità riuscissero a fare massa critica nella nostra cultura e nella nostra società, contagiando in positivo il comportamento di tutti. Il vangelo ci dice che queste azioni sono possibili anche prima di vivere nella stessa forza del “più forte”, cioè solo sul piano umano, prima della “grazia”.
Avvento, allora significa riattivare tutto il nostro umano nella direzione di queste azioni concrete, forse molto prima e di più che concentrarsi su riti religiosi, spesso fini a sé stessi. Purtroppo, invece, assistiamo spesso a porzioni di fedeli che confinano le espressioni della fede solo nel rito religioso – sacramentale, giustificando ciò col tentativo di non ridurre la Chiesa ad una ONG. Ma poi, spesso, sono gli stessi che, esplicitamente, ritengono un servizio alla fede la non condivisione a chi non è dei “nostri”, l’illegalità come mezzo giustificato da apparenti fini “buoni” e la fondazione morale appoggiata solo sull’ “io voglio” del singolo.
Tutti siamo certo peccatori, ma un conto è riconoscerlo e chiederne perdono, un conto, invece, è autogiustificarsi in comportamenti non evangelici, utilizzando e stravolgendo dati di fede a proprio uso e consumo. La Chiesa non è una ONG non perché condivisione, giustizia sociale e moralità debbano essere dimenticate, ma perché il testo di oggi non finisce qui e ci consegna due immagini potentissime, per descrivere il “di più” che verrà regalato a chi crede in Cristo.
La prima. A quel “più forte”, quando verrà, Giovanni non è “degno di sciogliere il legaccio dei sandali” (v. 16). Espressione ricavata dall’applicazione concreta della “legge del levirato”. Quando una donna rimaneva vedova senza un figlio, il cognato aveva l’obbligo di metterla incinta, per perpetuare il nome del morto. (Cfr. Dt 25, 5-10). Quando il cognato si rifiutava, prendeva il suo posto colui che nella gerarchia famigliare veniva subito dopo di lui, e si procedeva al rito dello scalzamento: scioglieva i legacci dei sandali dell’avente diritto, li prendeva e ci sputava sopra, a dire che il diritto di mettere incinta questa donna vedova passava di mano.
Perciò, qui, Lc ci dice che colui che deve “fecondare” questo popolo, considerato una vedova senza più rapporto con Dio, non è Giovanni, ma il “più forte” che deve venire. Questi, perciò non è appena un maestro di dottrina, un esempio morale o un capo politico – religioso, ma colui che deve infondere nelle persone una inattesa forza vitale, capace di generare vita nuova. Questo è il senso del battesimo in “spirito santo e fuoco”, che rimanda chiaramente ad At 2, 2-3, la pentecoste.
La seconda. Colui che deve venire “ha in mano la pala per ripulire l’aia” (v. 17). Espressione ricavata dall’uso agricolo degli Ebrei e di molti popoli, presente anche da noi fino ad un secolo fa. I covoni del grano mietuto venivano posti sull’aia di casa e sbattuti con forza per staccare i chicchi dalla spiga. Poi, si faceva volare, alzando a mezz’aria con una pala, ciò che era rimasto in terra, per separare i chicchi dalla pula. Questa, più leggera, veniva portata via dal vento, mentre i chicchi, più pesanti ricadevano a terra e venivano insaccati nei granai.
Sembra che Giovanni abbia una interpretazione di questa immagine diversa da quella di Cristo. Quando Giovanni inizia a parlare alle folle le apostrofa in modo molto duro: “Razza di vipere, chi vi ha mostrato come fuggire all’ira imminente?” (Lc 3,7); poi dice loro che la scure è “posta alla radice degli alberi” (Lc 3,9); e nel testo di oggi aggiunge la notazione della pula che sarà “bruciata con fuoco inestinguibile”, non contenuta nella metafora agricola (v. 17). Ciò fa pensare che per lui l’atto di “ripulire” l’aia sia in connessione con l’idea del Dio che punisce e premia a seconda delle opere.
Ma quando Gesù parla di Giovanni, omette la citazione del fuoco inestinguibile (Lc 7, 24-28) e si presenta come colui che è venuto per salvare il mondo, non per condannarlo (Gv 12,47), colui che non spezza la canna incrinata e non spegne la candela fumigante (Mt 12,20). Una differenza tanto vera che lo stesso Giovanni, secondo Lc, entrerà in crisi davanti alla misericordia assoluta di Cristo, fino a dover inviare a lui i suoi discepoli e chiedere conferma se davvero sia lui il messia (Lc 7, 18-23).
Perciò, se seguiamo l’interpretazione di Gesù, questa metafora agricola ci ricorda che l’azione di Dio è una sola, quella di investirci col suo amore assoluto, con la forza dello Spirito, innalzando la nostra condizione umana a livello del suo amore. Chi non “regge” alla forza di questo amore (la pula, nella metafora) si autocondanna per la propria “leggerezza”, la propria inconsistenza interiore. Chi è solido e ha “peso”, cioè ha valore (il chicco di grano) viene reso “produttivo” proprio dall’essere investito da quell’amore.
Avvento allora significa lasciarsi innamorare, lasciar “franare” le nostre difese e paure davanti all’amore che ci investe, forse proprio perché abbiamo sentito, già a livello umano di condivisione, giustizia e moralità, che amare è molto più umano, pieno e bello. Questo ci permetterà di accettare che la via per vivere pienamente non sia più quella di usare Dio per soddisfare i nostri bisogni e la nostra volontà, appoggiandoci a lui quando da soli non ci riusciamo, ma quella di vivere di Dio e con Dio, per essere come Dio, capaci di un amore condiviso, giusto ed etico, potenzialmente assoluto.
Il mondo di oggi non sembra essere cambiato, i poveri sono in attesa di un Liberatore”, ed Egli deve mostrarsi uomo giusto, perché sono le ingiustizie a creare povertà, guerre e ogni sorta di odii contro la vita. Non bastano quindi i soli gesti di carità, il predicare come vivere la vita di comunità in modo democratico, serve ascoltare una Parola che miri più in alto, a salvezza della vita umana, che arrivi al cuore, che rompe la nebbia dell’indifferenza verso il proprio simile, imitare con coraggio a fare ciò che quella Parola suggerisce. Il Crocifisso ha da farsi presente nell’alveo di una famiglia solo così si fa Natale, l’attesa è finita, e’l’amore disposto a sacrificio che crea quella gioia quella Pace tanto inseguita, vagheggiata..Abbiamo il coraggio di aver Fede in Lui eQuesto potrà accadere , e teniamo accesa la luce della Speranza perché quel Dio ci dia la Sua Pace
Buongiorno
Gesù Cristo è IL Figlio di Dio IL Padre, Il Salvatore del mondo e tutti i quattro vangeli evidenziano dell’opera Sua nell’atto di invitare ognuno al ravvedimento per il perdono dei suoi peccati ed essere salvato.
Oggi più che mai il mondo ha bisogno di ravvedersi e di convertirsi dalle sue vie di peccato, di violenza e fare di Gesù il proprio Signore e Salvatore.
Ha bisogno di credere IN LUI, che è morto e risorto; di confidare e sperare in LUI per essere salvati, abbandonando il peccato.
Il motivo di quel velo di amarezza e quel vuoto esistenziale che tanti avvertono, è segno di mancanza di posizione in rapporto al Salvatore Gesù, mancanza di arresa a LUI.
LUI ha detto: venite a me; credete IN me, ravvedetevi e troverete vita e pace.
Cristo è la risposta al degrado morale delle persone
Difficile evitare il confronto tra la predicazione di Giovanni e quella di Gesù pur sapendo i loro “ruoli” diversi e complementari nel vangelo. Il confronto è però utile per capire ed evidenziare la caratteristica della predicazione di Gesù: se Giovanni parla del fare con la conseguente focosità che da esso proviene, Gesù parla dell’essere con la necessaria lucidità che esso necessita e il fare è conseguenza dell’essere a cui è legato come Gesù e legato a Giovanni. La predicazione di Giovanni è un’accusa morale rivolta al popolo e ai suoi capi mentre quella di Gesù è un annuncio di salvezza al popolo e un accusa a chi può impedire la salvezza in particolare ai capi religiosi e non ai capi politici: dai a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio conferma proprio questo.