Corpo donato, cuore che ama

Tra 'Corpus Domini' e festa del 'Sacro Cuore': cosa dicono a noi, oggi, queste feste?
20 Giugno 2022

In questi giorni la liturgia ci fa attraversare due feste un po’ particolari, a prima vista difficili da decifrare e quasi appartenenti ad un tempo e forse una fede diversi: la festa del ‘Corpus Domini’ (il pane consacrato, segno vivo e reale dell’Eucaristia celebrata) e la festa del ‘Sacro cuore di Gesù’ (da cui sgorgano “sangue e acqua”, sulla croce).
Se oltrepassiamo il linguaggio, anzi in realtà se ci entriamo dentro, scopriamo che la realtà di queste due feste è profondamente antropologica: l’esperienza cristiana – che trae origine da un mistero di incarnazione – non si accontenta di offrire parole e riti, sguardi al Cielo e gesti ‘sacri’, ma si contamina con la verità della nostra esistenza. E noi siamo fatti di carne, sangue, cuore, cibo che ci alimenta e che diviene segno profondo di condivisione e di cura, di dono ricevuto e offerto.

Il fatto di trovare – al principio della nostra via spirituale – il gesto di Cristo che prende se stesso, totalmente, e si fa pane (e vino) buono per la nostra esistenza, che ama al punto da consumarsi, da non tenere più niente per sé, e che – ogni volta che ci ritroviamo nel suo nome – spezza l’eternità di Dio nelle briciole della nostra finitezza, ci aiuta a non cadere nell’inganno di pensare che la fede sia anzitutto un esercizio di virtù, un coraggio nel compiere gesti ‘che Dio vuole’, una volontà che si piega e sottostà a Qualcuno che percepisco sopra di me, confusamente, impersonalmente.

Al principio sta l’obbedienza: non quella intellettuale o meccanica, ma quella dell’essere amati, chiamati, convocati. L’obbedienza del non aver scelto ma dell’essere stati scelti. L’obbedienza di trovare un dono che ci precede, un cibo che ci nutre e pretende di essere essenziale, necessario.
In questa obbedienza, in questo essere sopresi dall’Amore che Gesù ci mostra, intuiamo la profondità dell’animo di Dio, che si riversa nell’animo di suo Figlio, che ci inonda del dono dello Spirito. Il cuore di Gesù non è la sede dei buoni sentimenti, ma delle decisioni, della libertà che si radica e porta frutto, della passione che si apre al dolore e alla fragilità degli esseri umani e non si fa travolgere, ma con umiltà si mette a servizio.

Il discepolo guarda Gesù, le mani che accarezzano, guariscono, consolano; che spezzano il pane e versano il vino, che vengono inchiodate. E vede il cuore del Figlio dell’Uomo che lo chiama ad avere un cuore grande, non impaurito, non blindato, non ‘sclerotico’.
Come leggiamo nell’enciclica Deus Caritas est: “Tutta l’attività della Chiesa è espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo”. Non è un programma aziendale, ma un’esigenza, un’urgenza. È essere stati trasformati e non potersi sottrarre alla Parola che ci invia. È carne, sangue, cuore. È sovrabbondanza di vita.

Siamo, con te, Maestro,
come i discepoli in cammino verso Emmaus,
in cammino sui sentieri della storia.
Ci fai scoprire il senso vero del nostro vivere,
ci inviti a restare con te per scoprirti come amore che si dona.
Ti cerchiamo Maestro,
vorremmo incontrarti nelle piccole cose della nostra vita,
raggiungerti tutte quelle volte in cui ci sembri lontano.
Noi ti cerchiamo, affannati, e invece tu sei qui,
tu abiti in quel luogo che noi conosciamo così poco di noi:
il nostro cuore.
Un cuore affannato, distratto, stanco,
che noi abbiamo trasformato in pietra.
Tu invece lo conosci e ne hai compassione:
conosci le nostre paure, i nostri limiti,
le nostre incoerenze, le nostre debolezze.
Ci accogli così, senza chiederci niente,
ti fai nostro compagno di strada:
ti fai pane per noi!
Ti preghiamo, Signore: fa’ che stando davanti a Te
lasciamo spazio alla tua presenza.
Fa’ che anche il nostro cuore si faccia ardente,
e sappiamo riconoscerti sempre
sulle strade della vita.

6 risposte a “Corpo donato, cuore che ama”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    La parola obbedienza oggi assume un significato diverso da quello in Gn11, quella che risponde a Dio nella fede. Nel I’Com.to Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore….imparato a memoria dai catecumeni suona come di obbedienza a una imposizione. Invece il Dio che si prende cura dell’uomo e lo vuole salvare gli indica attraverso le 10 Parole, al suo popolo e noi oggi quali sono le vie che se seguite conducono a salvezza.Gesu Cristo è venuto per confermare l’Amore del Padre, fino a lasciarsi crocifiggere perché meglio giungesse da tutti compreso il messaggio di Amore e Pace rivolto a tutta l’umanità, finché Egli ,il Risorto, venga. Nell’oggi è chiaro che un vangelo nuovo muove la società , via via si è costruito, un concetto di libertà i cui valori hanno sostituito quelli raccomandati dal Dio creatore vissuti da un resto di credenti. Ora et Labora, ma oggi mettere in luce l’amore nel mostrare il suo frutto

  2. Roberto Beretta ha detto:

    Il problema di queste (e tutte le altre) devozioni è che hanno sempre sfaccettature interessanti e ricche di significati – spirituali, pastorali, antropologici, pedagogici, mistici, eccetera. Però, proprio per questo proliferare di significati “utili”, hanno l’enorme difetto di ingigantirsi nella pratica fino a far credere di essere la cosa più importante. E a far perdere di vista l’essenziale.

  3. BUTTIGLIONE PIETRO ha detto:

    Mi accodo a Gilberto:
    “Forse anche le parole vanno purificate per poter essere compresi”
    Io scrivo che “credere” è fatto/funzione intellettuale, frutto di elaborazione mentale.
    E nn credo che sia questo che Dio vuole da me.
    Lui si aspetta che io VOGLIA credere, con il corpo, con la mente, con tutto me stesso..
    Oltretutto “Credo che..” equivale ad accantonare il probl…
    Che invece va risorto ogni mom con
    IO VOGLIO TE..

  4. gilberto borghi ha detto:

    “In principio l’obbedienza”. Comprendo il senso bello di ciò che dici, ma detto cosi oggi suona ancora come “dover qualcosa a Qualcuno”.
    La mia esperienza mi fa legare invece, la percezione dell’amore ricevuto non all’obbedienza, ma alla libertà di risposta. Davanti ad un amore totale non siamo obbligati a rispondere ricambiando. Se lo facciamo è perchè quell’amore ci è penetrato dentro tando da diventare la nostra stessa carne e nella libertà di chi si percepisce amato, ridoniamo amore.
    Forse anche le parole vanno purificate per porer essere compresi

    • Salvatore Amico Roxas ha detto:

      Interessante l’osservazione di Gilberto, ma proprio in questo caso mi pare che Enrico precisi bene che si tratta di un’obbedienza che non è “quella intellettuale o meccanica, ma quella dell’essere amati, chiamati, convocati. L’obbedienza del non aver scelto ma dell’essere stati scelti. L’obbedienza di trovare un dono che ci precede, un cibo che ci nutre e pretende di essere essenziale, necessario”.
      Bene mi pare si esprima quindi Enrico, ed è importante recuperare un’obbedienza secondo un linguaggio purificato, cioè che torni alla sua verità semantica.

    • Enrico Parazzoli ha detto:

      Hai ragione Gilberto, ma – appunto – nella sua profondità l’obbedienza nasce sempre (dovrebbe) dall’ascolto e l’ascolto dall’amore.
      Purtroppo nella confusione semantica e spirituale l’obbedienza ha perso la sua radice, che sta in una concezione ‘vocazionale’ (cioè ‘responsoriale’) della libertà. Io obbedisco e mi obbligo perché sono dentro una chiamata.
      Cristo non “imparò” forse l’obbedienza addirittura “dalle cose che patì” (cioè che accettò nell’amore)?
      e il buon Carlo Maria non affermava addirittura nel suo motto: ‘pro veritate adversa diligere’?
      Che poi sia facile: decisamente no!

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