Ci vuole orecchio, per ascoltare Gesù

«Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!»
25 Febbraio 2018

II domenica di Quaresima: Mc 9,2-10

DAVANTI ALLA TRASFIGURAZIONE DI GESÙ (1155 ca., Betlemme, Basilica della Natività)

 

Di per sé la scena della Trasfigurazione non è affollata. Quindi, in teoria, dovrebbe essere un tema semplice per gli artisti, con le sue sei presenze fisse (Gesù, Mosè ed Elia, più Pietro, Giacomo e Giovanni), sistemabili nell’opera in modo più o meno simmetrico.

Poi ci sarebbe pure il paesaggio da mettere in gioco. E benché qualcuno ne faccia a meno, resta comunque significativo. Non tanto per decidere se sia meglio far poggiare a terra i piedi di Cristo-Mosè-Elia o farli librare nella luce, quanto per sottolineare l’importanza dell’uscire dalla città e del rientrare in essa. C’è, infatti, chi non rinuncia a mostrare la salita sul monte (ad es. Lotto), chi raffigura andata e ritorno (ad es. Teofane il Greco, tra gli antichi; Janknegt, tra i contemporanei) e chi dà rilievo alla sola discesa, a ricordare di non ritenersi già in vacanza (alcuni, ad es. Raffaello e Rubens, aggiungono la guarigione dell’epilettico, successiva alla Trasfigurazione).

Il nodo vero, tuttavia, resta la rappresentazione del momento-chiave, quando Gesù appare in gloria. Reso da Marco – a parole – in maniera strepitosa e insieme popolare, usando ogni risorsa verbale per superare il superlativo assoluto nella descrizione delle vesti del Signore: «splendenti, bianchissime; nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche».

L’artista, però, lavora in un altro campo, nel quale l’immagine – paradossalmente – non fa immaginare quanto la parola… e potenzia quella luce incredibile mostrando l’effetto che fa sui tre apostoli chiamati ad assistere (un po’ come quando, nel cinema, per trasmettere paura, basta far vedere i volti di chi ha paura).

Sebbene oggi – grazie alla tecnologia – esistano le possibilità di rendere eccezionale quel bianco, alle tre posture l’arte fa ancora ricorso. Anche perché esse non sono simili e i più raffinati tendono a cogliere le differenze, in fedeltà a quanto è scritto nel Nuovo Testamento: così Pietro, di solito, viene dipinto come quello che più di tutti volge gli occhi alla scena (avendo dichiarato – nella sua seconda Lettera – d’essere stato testimone oculare della gloria); Giovanni, invece, sembra provare a guardare, senza riuscirvi (avendo scritto, all’inizio del suo Vangelo, che «Dio nessuno l’ha mai visto»); e Giacomo viene rappresentato come il più scosso dalle parole del Padre sul Figlio, «Ascoltate lui» (avendo sviluppato, nella sua Lettera, tale tema: «Se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica…»).

Del mosaico di Betlemme, eseguito dai monaci Ephram e Basilius e riportato di recente allo splendore antico, è rimasto poco. Forse è un bene che si sia salvato proprio Giacomo, il meno associato – dei tre – al vedere, il più incline all’ascoltare. Oltre alla gamba scoperta (una novità nelle Trasfigurazioni dell’arte), a segnalarne la destabilizzazione, l’apostolo ha il volto serio di chi capisce come l’ascolto sia impegnativo. Per fortuna i colori del paesaggio sono rasserenanti, a conferma del «che bello essere qui» detto da Pietro: cioè del fatto che lo sconvolgimento viene dalla bellezza. Non da un sentirsi in soggezione, ma dal fascino – unito al timore – della vita nuova verso cui si avverte d’essere in cammino.

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