Che cosa diciamo di Gesù?

«Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà»
19 Giugno 2016

19 giugno: XII domenica del tempo ordinario: Lc 9,18-24

CRISTO PORTACROCE (Hieronymus  Bosch, 1510-16 ca., Gand, Museum voor Schone Kunsten)

 

«Le folle, chi dicono che io sia?»: pare un sondaggio, questo interrogativo, commissionato da un leader per misurare il successo della propria immagine. E tutte le risposte, anche se espresse a parole, sono delle immagini: «Giovanni il Battista, Elia, uno degli antichi profeti che è risorto». Forme già note, a cui siamo soliti conformare ogni novità, Gesù compreso (come quando, coi neonati, andiamo a cercare a chi somigliano).

Però, al contrario di un leader, Gesù non si preoccupa del danno d’immagine. E trasforma la domanda in un esame di coscienza: «Ma voi, chi dite che io sia?». Al che Pietro, unico tra i discepoli, azzarda un’immagine che ritiene più vera, meno superficiale delle precedenti: «Tu sei il Cristo di Dio».

Ma la sua è una risposta trionfalistica, che Gesù non gradisce e che lo induce a dare il primo annuncio della sua passione, morte e risurrezione. Aggiungendo richieste molto esigenti per chi vuole seguirlo (e non semplicemente accompagnarlo): rinnegare se stessi e i propri sogni di gloria terrena, farsi carico della propria croce e perdere la vita. Ossia fare ciò che lui sta per fare. Con questo messaggio sottinteso (per chi scrive, ovviamente): «Se fate come me, avete capito tutto di me. E, se fate come me, siete voi la mia immagine migliore».

Non fa, Gesù, una critica alle immagini, peraltro molto utilizzate dal suo parlare. Ma è come se dicesse che le più belle, le sue preferite, siamo noi quando gli somigliamo.

Oggi le immagini – anche quelle di Gesù, anche la croce – corrono il rischio di scadere a icona, quando sono solo luce senza significato. Quando sono semplici da riconoscere ma incapaci di provocare una riflessione. Quando, per farsi accettare, si rendono attraenti diventando piene di rotondità, come una statuina Thun; o morbide e soffici, come un peluche Trudi; o multicolori, come il “Jesus” di una felpa Sisley.

Ha scritto Giovanni Fangani Nicastro: «Noi cristiani siamo affascinati dal Gesù che moltiplica i pani e i pesci, che sfama la gente, che guarisce i malati, che risuscita i morti… ma ci vogliamo conformare veramente a lui anche quando viene arrestato, flagellato, sputato, schernito, frustato, ferito, ucciso mediante la crocifissione?».

Bosch, in quest’opera non piacevole (e che non vuole esserlo), mostra le poche persone che si sono conformate a lui in quel momento e le tante che non si sono conformate. Vediamo Gesù e il Cireneo mentre sorreggono un legno: la forma della croce nemmeno si percepisce e, già in ciò, sfugge alla possibilità di diventare icona. Gesù è circondato da gente ostile o indifferente, ormai deforme. Gli unici, con Gesù, ad aver mantenuto tratti umani sono il Cireneo (in alto a sinistra), il buon ladrone (in alto a destra), una donna e la Veronica (in basso a sinistra). Oltre all’immagine impressa sul velo di lei. Sono anche gli unici con gli occhi semichiusi, incapaci di guardare degli inguardabili.

È un’immagine dura, che ci domanda – come Gesù – da che parte stiamo (o di chi siamo immagine) e non ha paura di urtare. È poco probabile che diventi un’icona e che ce la ritroviamo su una t-shirt.

 

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