ANNO B – XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Mc 12,28-34
Gesù è entrato a Gerusalemme. L’attenzione di Mc si sposta adesso, dal rapporto tra Gesù e i discepoli, alla relazione tra lui e i capi e le autorità religiose ebraiche. Già in Mc 3,6 i Farisei e gli Erodiani avevano deciso di farlo morire. Adesso siamo alla resa dei conti: devono trovare un motivo chiaro per catturarlo.
Perciò in tre ondate diverse provano a trovarlo in fallo, rispetto alla legge mosaica. Prima i Sacerdoti e gli anziani (11,27-12,12), poi i Farisei e gli Erodiani (12,13-17) e infine i Sadducei (12,18-27). Ma non riescono nel loro intento. A questo punto si fa avanti uno scriba. Erano i teologi del tempo, coloro che avevano studiato e avevano l’autorità di interpretare la Torah. Perciò godevano di prestigio sociale e potere religioso, riconosciuti da parecchi dei gruppi ebrei sulla scena. Sarà l’ultima volta di un “confronto” a parole con le autorità, prima della sua Pasqua e forse per questo la discussione verte sull'”architrave” essenziale dell’adesione a Cristo.
Ma questo scriba sembra non essere animato da un pregiudizio forte contro Gesù, come gli altri, e Mc sembra volerci dire che anche chi vive il potere negli Ebrei può essere attirato da Gesù. “Avendo visto che aveva risposto bene a loro (sadducei)” (v. 12,28), sembra che sia davvero interessato a sciogliere un dubbio fondamentale sull’interpretazione della legge: la Torah deve essere considerata un insieme unitario di “comandamenti”, dove tutti hanno la stessa importanza, e perciò se non se ne osserva anche solo uno, non si rispetta tutto intero il suo valore; o in essi si può ritrovare una gerarchia interna, che può consentire di non dover rispettare tutti le 613 regole derivanti dalla Legge e ugualmente essere accetti a Dio?
In sostanza lo stesso fondamentale problema che attraversa oggi la Chiesa, in cui ci si interroga in che senso il rispetto delle regole religiose metta o no in rapporto alla fede in Gesù, che a seconda degli orientamenti può tendere a produrre religiosità “regolate” che si appoggiano all’indicazioni ecclesiali, o spiritualità “fuori schema”, centrate sulle scelte individuali. Problema che porta con sé la domanda essenziale della questione morale del cristianesimo di oggi: il giudizio etico deve appoggiarsi di più sull’atto in sé o sull’intenzione della persona?
Lo scriba sembra più orientato alla seconda ipotesi, e questo gli permette di trovare una sintonia forte con Gesù, tanto da sentirsi dire alla fine “Non sei lontano dal regno dei Dio” (v, 34). La sua domanda è: “Qual è il primo comandamento di tutti?” La parola usata (comandamento) indica con chiarezza la singola regola concreta della Torah. Il “comandamento” si qualifica, cioè, per la concretezza ben definibile di una azione precisa, non tanto come un principio etico generale applicabile a situazioni diverse. Ha perciò una sua “obbligatorietà” morale, legata all’atto da fare o non fare, al di là dell’intenzione di chi agisce.
Ci si aspetterebbe, perciò, una risposta che attinga al decalogo o a qualcuno degli innumerevoli precetti dei leviti. Ma la risposta di Gesù non è in linea con la domanda. Riprende l’importantissimo passo di Dt. 6, 4-5, sull’amore per Dio, che era divenuto un “mantra” per gli Ebrei, ripetuto 2 o 3 volte al giorno, come loro “credo”. Poi, esplicita ciò citando anche Lv 19,18 sull’amore per il prossimo. Solo che, sia il primo che il secondo passo, non sono dei “comandamenti”. Per almeno tre motivi.
“Amare” Dio e il prossimo non indica un atto preciso e ben delimitato, come si richiede ad un comandamento, ma una disposizione della persona che agisce che da forma alla sua intenzione. Mette il dito, perciò, non aull’atto in sè, ma sul suo stato interiore, ben prima cxhe ciò produca i suoi atti. Indica, perciò un principio etico generale, applicabile in tutte le situazioni di vita, che poi dovrà concretizzarsi in azioni reali, proprio attraverso la coscienza della persona, tanto che noi riconosciamo diverse forme concrete di amore, non una sola.
Secondo. Non è un comandamento perché nel paragone, istituto dallo scriba si dice che amare è “eccedente” (v. 33) rispetto agli olocausti e i sacrifici, cioè qualcosa di non commensurabile con questi, perché risponde ad un’altra logica che sta “oltre”, nella relazione con Dio. La logica dei sacrifici, all’interno dei comandamenti, è quella del “ti do se mi dai”, provando a “comperare” Dio attraverso gli olocausti. La logica dell’amore, invece, è la gratuità della libera risposta a Dio, che ci precede con il suo amore e può essere vissuta solo a partire dalla percezione – convinzione di essere stati amati.
Terzo. La forma del verbo amare non è “l’imperativo”, né “l’aoristo congiuntivo”, tipiche del decalogo, e degli altri passi in cui viene prescritto un certo comportamento preciso. Qui invece troviamo un semplice “indicativo futuro”, cioè un modo di esprimere ciò che sarà a partire da come sono le cose, non ciò che dovrebbe essere. Non è perciò un comando o una prescrizione, ma la previsione di ciò verso cui l’uomo andrà vivendo la sua vita, cioè più una anticipazione della realtà che un obbligo morale. Un amore obbligato sarebbe una contraddizione in termini.
Questo ci consente di precisare cosa sia questo “amare”, di cui l’uomo è fatto e che sarà il suo destino, mostrandone dei caratteri precisi. Intanto che questo amore nasce dalla grande stima che si prova nei confronti di chi amiamo (questa è la radice del verbo greco usato). Cioè, è un sentimento che tende a riconoscere e rimandare all’altro la sua dignità umana, a farla emergere, a potenziarla e a proteggerla. Ben al di là di quanto l’altro si stima, si vede e si vuole, egli è percepito prima di tutto nella sua bontà, verità e bellezza personale che ne fanno il suo valore, al di là dei suoi limiti e problemi che può avere o di ciò che vuole.
In secondo luogo è un amore che nasce dala totalità della persona, presa nella sua interezza concreta, da cui non viene lasciato fuori nulla. Non c’è nulla nell’uomo che non possa partecipare all’amore: Cristo non chiede di amputare parti di sé per amare. Per questo, ben sette volte si usa il termine “intero” come specifica di questo modo di amare. La persona che ama così mette in gioco tutto di sé: “l’intero cuore, l’intera anima, l’intera mente e l’intera forza” (v. 30-34) e, per questo, la persona amata è colta a sua volta per intero, in tutte le sue dimensioni. Tutto ciò che siamo viene attivato e direzionato a tutto ciò che l’altro è, affinché il suo valore risalti al massimo possibile.
In terzo luogo, proprio perché muove tutta la persona, questo è un amore concreto, che si fa gesto reale, nella carne del proprio corpo. L’inserimento che Gesù fa del testo di Lv 19,18 (l’amore del prossimo) non è una aggiunta, ma un chiarimento. L’amore del prossimo è già dentro all’amore di Dio, e Gesù lo esplicita. Tanto che, nel momento in cui Lui lascia il suo “testamento” ai suoi, il primo e fondamentale “comandamento” diverrà: “Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato” (Gv 13,34). In cui l’amore di Dio non viene prima dell’amore del prossimo, quasi fosse un amore diverso, ma entrambi gli amori si fondono nello stesso atto di amore umano vicendevole.
Se, invece, questi amori si separano, decadono dalla loro verità entrambi, e l’amore per Dio diventa un tentativo di usarlo per i nostri fini, come “superpotere” per realizzare la nostra volontà anche oltre i nostri limiti, mentre l’amore del prossimo si riduce a filantropia che trova il suo criterio nel rispetto della volontà dell’altro, ben di meno della sua dignità. Invece, la fusione tra i due lati del comandamento permette di amare Dio concretamente, perché l’altro diventa davvero il Suo sacramento, realizzando quello che dice Giovanni: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20).
Ma permette anche di “aprire” la relazione umana dell’amore del prossimo riconoscendovi dentro l’amore trinitario. Da quando Gesù si è incarnato ci ha rivleato che Dio è così: totale dono reciproco dei tre, senza confusione tra loro. Il riconoscimento della presenza di Dio nell’amore del prossimo evita la fusione simbiotica tra i due, che è sempre un’operazione violenta, in cui uno dei due viene “alienato” dall’assorbimento totale nell’altro, mantendendo l’amore del prossimo nella sua verità profonda.
Solo in questa prospettiva si può dare ragione a ciò che Paolo aveva scritto, circa 15 anni prima del vangelo di Mc, ai fedeli di Corinto: “L’amore è paziente, è benigno l’amore; non è invidioso l’amore, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Cor 13, 4-7). Nella vita reale, sono caratteri impossibili senza essere stati afferrati dalla bellezza dell’altra persona, come traccia dell’amore di Dio, ed essersi decisi a spendersi per l’altro, spendendosi per Dio. Altrimenti questi caratteri diventano un obbligo ideale che finisce per “amputare” le parti di noi che si opporrebbero ad essi.
Diventa, allora, molto chiaro che l’architrave dell’adesione del fedele a Cristo è la relazione di amore, non il rispetto in sè delle regole. L’amore è in grado di produrre l’ordine etico, non viceversa. Nel suo tendere alla pienezza del dono di sè, senza alienarsi, l’amore permette di trovare concretamente quello che Agostino chiamava “l’ordo amoris”, l’ordine dell’amore. E questo indica con chiarezza che, alla fine, è l’intenzione con cui rispettiamo i comandamenti, non l’atto in sè di praticarli, che fa la vera differenza tra chi è di Cristo e chi non lo è.
Quanto appare ancora vero il comandamento “amare Dio sopra ogni cosa è il prossimo come te stesso””! perché l’amore è unificante, realizza la Pace, l’amicizia tra popoli diversi superando quelle che possono diventare barriere come tradizioni lingua, credo diversi. Appare dunque una sconfitta se si legge la news che in una scuola elementare alunni hanno gettato il segno Cristiano quale è il crocifisso fuori dalla finestra, trovato sul marciapiede in strada. Forse non era stato loro data sufficiente conoscenza di quell’uomo che per “amore” ha dato la vita! Forse ritenerlo un atto di vandalismo di cui pretendere ammenda non è sufficiente soprattutto in un Istituto che accoglie allievi di ogni provenienza e dimostra quindi quanto in quel segno” si realizzi il bene comune. La cultura al rispetto della persona umana si dimostra materia indispensabile a favorire la crescita della persona per una migliore società.
Io credo che Gesù per fortuna non fosse così cervellotico come lo siamo noi oggi che spesso ci perdiamo nei nostri ragionamenti. Nella speculazione perdiamo quella semplicità di cui Gesù ci parla quando ci chiede di diventare come i bambini. Il senso della frase credo sia semplicemente questo: amare Dio con tutti i mezzi a disposizione e cercare di amare il prossimo, come meglio possiamo, anche quando ci è scomodo e non ci viene istintivamente dal cuore.
Ascolta Israele! Precede la spiegazione di cosa è l’amore di cui Cristo ha mostrato loro in Parole e Opere. E’ un invito a seguire anche noi la via che Lui ha percorso, solo così si dimostra che noi siamo in Cristo come Egli è stato nel Padre. E’ pur vero che senza le opere non c’è testimonianza di Fede in Lui, amare il prossimo come se stessi e dunque essere nell’amore di quel Dio che ha mandato il Figlio a darne testimonianza pur sapendo come l’uomo, lo avrebbe accolto. Oggi Con le guerre in atto, con l’ostinazione a perseguire la Pace attraverso uccisioni di propri simili, si contravviene alla Verità, che è Cristo via, verità e vita. Ancora suona persuasivo quell’Ascolta! Rivolto all’uomo di ogni tempo, a operare con l’intelligenza non solo della mente ma anche con quella che è del cuore, un comandamento nuovo “Amare Dio sopra ogni cosa è il prossimo come se stessi”, via alla Pace
Forse sono OT ma non parlerei di soggettivo/oggettivo. Ed eviterei di parlarne troppo.Perchè SE riesci a definirlo quello non è più Amore che è Altro, come Dio.
PS raccomando di includere l”amore vs se stessi (cfr COME pure te stesso)
Anche io ritengo che l’amore sia indefinibile, imprevedibile ed indicibile.
Come Dio..forse non mi sono spiegata bene, ma quel mettere in luce il soggettivo, contrapposto all’oggettivo, voleva significare proprio questo: secondo la mia visione, ciò che è indefinibile non è oggettivizzabile e rimane nel campo dall’interiorità umana, del soggetto e della sua libertà..Spirito..
L’amore fa parte della salvezza e, come la fede, viene dalla grazia di Dio e dallo spirito santo e magari quello che noi chiamiamo amore potrebbe non solo venire dallo spirito santo ma essere proprio lo spirito santo.
Non si può oggettivizzare ciò che è soggettivo.
Ciò che è interiore si può manifestare in azioni e atteggiamenti esteriori, che sono dell’individuo, non certo comandati da altri, e rimane indefinibile, imprevedibile.
In quel sentimento così indefinibile, risiede ciò che ci fa esseri unici ed irripetibili, non nel cervello quindi, ma nel cuore, organo materiale e spirituale, sede del Centro di tutto ciò che è e siamo..
Ed è in quel cuore, allora, che ci distingue dalle cose prettamente materiali, che risiede quella dimensione ulteriore, non visibile, ma così indefinibile che chiamiamo Dio..
Per questo l’amore di Dio coincide con l’amore per il prossimo “come” me stesso: nel Cuore tutto si riunisce, Tutto può prendere forma e Tutto può trascendersi.
Di fatto con l’amore il soggetto definisce, con la singolare intensità che solo un sentimento può generare, l’oggetto della sua ricerca e tale intensità illumina l’oggetto e ne risalta la sua priorità rispetto al soggetto.
Il movente di questa ricerca è e dev’essere comunque egoistico perché a beneficiarne è soprattutto il soggetto. In questo senso è, come dici tu, una questione soggettiva e non oggettiva in quanto è legata all’unicità di ogni essere.
L’amore è al contempo qualcosa di unificante per la persona e tra le persone. Quando si ama si sperimenta l’unione tra elementi apparentemente divisi in noi quali l’istinto e la volontà, i sentimenti e la razionalità ma la capacità di amare non è innata in noi ma la dobbiamo imparare e far crescere. Quello di Gesù non può per questo essere un obbligo ma è un insegnamento in cui egli ci dà il suo esempio e imparare e conoscere sono delle attività che l’uomo può arrivare a compiere su di sé, come lo fa normalmente verso la realtà e verso gli altri, solo amando e conoscendo Dio. Il secondo insegnamento dà un senso al primo, all’incarnazione, alla fede e all’essere uomini e figli di Dio.