Violenza sulle donne e identità antropologica

Se molti abusi nascono da concezioni erronee di potere, è essenziale considerare l’identità valoriale della persona, a prescindere dal ruolo che questa esercita
4 Febbraio 2025

A più di un anno dall’afferrato femminicidio di Giulia Cecchettin, che ha lasciato l’Italia intera attonita, a livello giuridico si è giunti a un inasprimento delle pene e a un rafforzamento delle misure preventive a tutela della donna, in seguito a segnalazioni di comportamenti persecutori o maltrattanti. Si pensava (a torto) che, almeno i femminicidi, in quanto espressione massima della violenza sulle donne subissero, quanto meno, un’inversione di tendenza. Così non è stato e così non è, e sebbene ‒ va ribadito per onestà intellettuale ‒ secondo i più accreditati rilevatori nazionali (Istat), esteri ed internazionali (Bureau of Justice e ONU), i femminicidi non sono in aumento rispetto a un ventennio fa, i dati di questi crimini risultano comunque sensibilmente allarmanti, specie se si considerano i livelli di civilizzazione raggiunti dalle società occidentali. La violenza, in quanto manifestazione del male, è un’espressione contraria al raggiungimento nobile della condizione umana.
Il dibattito ancestrale attorno alla violenza scuote l’opinione pubblica: inasprimento delle pene o apprendimento di modelli eroici o ancora meglio, comprensione di valori e virtù, poi applicabili ai diversi archetipi dell’umano nelle diverse visioni antropologiche che costellano il mosaico dell’umanità?

La disputa morale, o meglio etica (in una coralità di voci tra i diversi stranieri morali che affollano il mondo), rimane irrisolta, perché per individuare delle possibili soluzioni, sia preventive che riparative, si deve fare un passo a monte e chiedersi: che visione antropologica vogliamo coltivare in riferimento alla persona umana? In fondo la matassa da sciogliere verte proprio qui: che modello di individuo, o meglio ‒ di persona ‒ abbiamo in mente, e cosa reputiamo o meno confacente a lei.

La brillante Hannah Arendt spese tutta la sua vita a riflettere sui concetti dell’identità, spesso in relazione alla violenza e al male, elaborando e maturando due soluzioni: quella dell’assimilazione e quella della singolarità. Se nella fase giovanile credeva che il male potesse essere evitato mediante il metodo dell’assimilazione (al pensiero dominante e alla cultura di massa), nella sua intuizione più matura ella colse che è la singolarità a permettere la fioritura più piena e realizzata della propria umanità. La filosofa riteneva che tutte le diverse azioni: scolastiche, accademiche, professionali e familiari, rientrassero nel campo della «necessità», ossia in quella dimensione che può essere definita l’“ordinaria amministrazione” della vita. Quando però si entra nella dimensione politica (che per lei è l’espressione più evidente dell’umanità, nella quale gli esseri umani si mostrano nell’arena del mondo dialogando), si esercita l’arma della parola per esternare agli altri “il proprio io”, facendosi riconoscere nella propria identità più vera e profonda, indipendentemente dai ruoli o dalle funzioni ricoperte nella polis. Se trasportiamo in ambito etico quest’intuizione è fortissima: la singolarità è dettata dai valori che costituiscono la persona e non tanto dal successo o dai risultati accademici, professionali ed economici che questa raggiunge.

La violenza sulle donne spesso scaturisce a causa del vuoto identitario, o quando l’identità è in corso di trasformazione (non solo nel caso di nuovi modelli sociali emergenti ma anche in quei cambiamenti sostanziali dei percorsi di vita di un uomo). Il susseguirsi di modelli (sia maschili che femminili) che non manifestano una solida essenza valoriale, il cui scopo esistenziale viene focalizzato unicamente nel riconoscimento sociale, nel possesso di molti beni di consumo e nell’ostentazione del proprio aspetto fisico, crea un disorientamento antropologico. Questo offusca il vero senso delle virtù e della dignità umana.  Inoltre, se molti abusi nascono da concezioni erronee di potere, è essenziale considerare l’identità valoriale della persona, a prescindere dal ruolo che questa esercita, perché l’umanizzazione del mondo dipende dal carisma e non dall’ufficio.

 

 

2 risposte a “Violenza sulle donne e identità antropologica”

  1. Pietro Buttiglione ha detto:

    Io, ma non solo io, sono arrivato da tempo au qus tesi
    Invece di parlare di essere/cosa/sostanza/identità ( antropo o altra..cambia nulla..😅) meglio parlare di RELAZIONE. Quello che dà colore ad un oggetto è la tipologia della sua relazione con la luce. Quanto di quello che io sono lo devo all’Altro??
    Siamo passati da una società fatta di stereotipi e regole di comportamento sia personale che sociale PRE-COSTITUITE alla anarchia individualista senza Etica condivisa. Concludo.
    Educare alla RELAZIONE con l’Altro. Senza.. diritti nel burrone. Immigrati,,destrasinistrachiesa..tutto!

  2. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    In questi giorni stiamo assistendo alla prospettiva di improvvisi cambiamenti nella società e non così sereni da far alimentare “speranza” nel più prossimo domani. Capi di Governo che con autorevolezza dispongono e pretendono imporre a cittadini, popolo, nazione, nuove idee per un cambiamento sociale che meglio interpreti il progresso con piu nuovi obiettivi da raggiungere. Viene spontaneo al comune cittadino domandarsi quanto possa essere realizzabile se a tanta parte di cittadini questo significa perdere beni come: lavoro, la propria stabilità sociale raggiunta con sacrificio; o quando questi beni sono da ricercare emigrando altrove! diventare un numero eccedente all’interesse di una azienda. Preoccupante l’aumentare di povertà causate dal l’insorgenza di malattie nuove, originate
    da inquinamento di prodotti chimici, da guerre per odi insanabili, le vite umane sacrificate! Come pensare tutto questo un percorso di Pace ? Rispetto all’essere umano più debole?

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