«Tolo tolo»: c’è poco da ridere?

Il film-evento di Checco Zalone non è un capolavoro, ma ha il coraggio di affrontare un argomento tabù e insinuare qualche dubbio nei luoghi comuni sui migranti. Con qualche "sogno" non troppo nascosto...
12 Gennaio 2020

Per sgombrare gli equivoci dirò subito che a mio parere «Tolo Tolo», il film-rivelazione (anche se abbondantemente annunciata…) di questi giorni, di sicuro non è un capolavoro, e nemmeno un gran film: troppa frammentarietà di racconto, alcune scene scontate solo per dare consequenzialità alla storia e poi quella parte finale in cartone animato che francamente (sempre a mio giudizio) era meglio risparmiarsi. Se davvero questa rischia di essere la pellicola italiana più vista di sempre, beh non rende giustizia alla cinematografia patria. E forse il simpatico Checco Zalone avrebbe potuto con profitto prendersi un regista, anziché scegliere di far tutto da sé.

Detto questo, bisogna anche escludere – da una parte – che si tratti di un film “razzista” nonché – dall’altra – che sia un lavoro “impegnato”, di denuncia; cosa che del resto non si pretende dai film comici. Zalone rappresenta sì (o meglio lascia intuire) le dolorose peripezie dei migranti – le guerriglie da cui fuggono, i viaggi nel deserto, le violenze subìte, i campi di raccolta libici, la corruzione per pagare i traghettatori del Mediterraneo, eccetera – ma in modo edulcorato, un po’ buonista: e anche qui, a una pellicola che dovrebbe far ridere, mica si può chiedere di mostrare sangue & morte…

Ma passiamo agli aspetti che reputo positivi. Il primo è appunto il coraggio nella scelta dell’argomento, a costo di far ridere meno del solito (come in effetti succede in sala): in una stagione da cinepanettoni e in un’epoca di spinto pregiudizio negativo sugli stranieri, occuparsi proprio dei migranti e non da “odiatore professionista” è per un comico assolutamente meritorio. Non lo fanno i politici, per paura di perdere consenso, e pure Zalone avrebbe potuto facilmente risparmiarselo. Vuol dire che l’uomo Luca Medici (il vero nome dell’attore-cantante-imitatore) è migliore della caricatura di “italiano medio” cinico e opportunista che restituisce sugli schermi. Chapeau.

Il secondo aspetto positivo è poi il vero fil rouge di tutto il film: mostrare come i nostri giudizi (le nostre paure) sui migranti siano fondate su una visione distorta della realtà. Il protagonista infatti fugge dall’Italia perché inseguito dai debiti e dalle tasse e cerca in Africa una vita dorata («il sogno»), mentre in senso opposto una moltitudine di africani vorrebbe (un altro “sogno”) di percorrere la strada contraria esattamente per i medesimi motivi. Allo spettatore trarre le conseguenze, che secondo me sono almeno due: noi italiani ci lamentiamo (anche giustamente, ma in modo troppo distruttivo) di una situazione che comunque milioni di altri esseri umani invece ci invidiano, e forse i migranti paradossalmente ci potrebbero restituire quel po’ di orgoglio di essere italiani che è la base psicologica indispensabile per iniziare un riscatto.

Il film offre poi altre pennellate controcorrente: l’odio per lo straniero cambia drasticamente quando si viene a contatto fisico con il popolo dei barconi (Zalone che si affezione al bimbo e si innamora della bella africana); la società multiculturale è comunque inevitabile e potrebbe persino essere migliore dell’attuale (il sogno del protagonista che si trova in una moderna città popolata di efficienti e sorridenti neri). Troppo poco? Come abbiamo già notato, il film procede per intuizioni senz’altro edulcorate e “buoniste”. Ma probabilmente proprio per queste caratteristiche riesce a parlare a tutti, senza suscitare ripulse ideologiche e pregiudiziali.

Fedele al suo intento artistico, cioè, Zalone non solo rappresenta ma anche si rivolge all’«italiano medio» con il massimo del linguaggio che – in questo momento – sembra disposto ad accettare. Se non si può andare oltre, non è colpa del comico ma del pubblico. Checco fa la sua parte, lancia il suo sassolino. Se qualcuno ride meno di quello che si aspettava è perché stavolta c’è oggettivamente un po’ meno da ridere.

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