Sulle rigidità poco liquide

Sulle rigidità poco liquide
30 Novembre 2016

Forse ci siamo fatti ammaliare troppo da Z. Bauman. Forse la metafora della “società liquida” è stata scambiata davvero per reale. E questo ci ha impedito di vedere come la post-modernità, almeno da una quindicina d’anni, stia mostrando una faccia poco liquida, molto rigida e ben solida. Probabilmente Bauman aveva ragione rispetto alla prima post-modernità, da metà anni ’80 al millennio. Qualcuno si spinge a dare a questo confine una puntualità eccessiva, riconoscendolo in quel 11 settembre 2001.

Resta però vero che, al di là delle date, dal millennio in qua la post modernità ha mostrato una recrudescenza evidente delle rigidità. Come se, in questo mare di liquidità sociale, siano apparsi prepotentemente brandelli di umanità, che per galleggiare sono stati costretti ad indurirsi, ad irrigidirsi, per non soccombere.

Dalla politica all’economia, dalla finanza alla religione, dalla comunicazione all’etica, in ogni settore sembrano oggi prevalere tendenze rigide, estremiste, non negoziabili: difese che diventano muri, distinzioni che si risolvono in separazioni, verità che si trasformano in oggettivismi, credenze che si fanno dogmatismi.

E ovviamente la Chiesa non è esente da questo processo, perché vive nel mondo, pur non essendo del mondo.

Ma ciò su cui spesso non si pone attenzione, all’interno della Chiesa, è che questi “estremismi” rigidi vivono, galleggiano, a condizione di essere “l’un contro l’altro armati”, nell’illusione che la battaglia decisiva sia quella di vedere, alla fine, trionfarne uno. Illusione che, senza rendersene troppo conto, fa il gioco del grande “dogmatismo” in cui oggi tutti abitiamo, quello del mercato globale, che ha già visto da tempo come, per poter espandere all’infinito le sue possibilità di vendita, le guerre e gli scontri ideologici siano essenziali.

Visto da questa angolatura lo scontro in atto dentro la Chiesa tra buonisti e giustizialisti non è altro che l’esito, in ambito religioso cattolico, della post modernità più corrosiva e disumana. E mostra come entrambe le posizioni in guerra siano figlie della postmodernità e lavorino non per il vangelo, ma per la cultura dominante.

I buonisti pensano che, per salvare l’umano che resta possibile, si debba rinunciare alla verità oggettiva e approdare ad un compiuto soggettivismo, in cui il senso della vita è ridefinito dal soggetto stesso, mai una volta per tutte, e sempre e solo per sé stesso. Perciò ci vuole accoglienza, dolcezza, liberalità del singolo, comprensione, senza se e senza ma. Forse, figli di una esperienza diretta in cui l’oggettività della verità è stata percepita come mortifera, non riescono a riconoscere ad essa una possibilità sensata.

Al contrario i giustizialisti pensano che, sempre per salvare l’umano che resta possibile, sia necessario rinunciare alla soggettività e affidarsi in toto all’oggettivismo della verità, in cui il senso della vita è definito per chiunque dall’istituzione spirituale, una volta per tutte, senza necessarie “incarnazioni” nella vita dei singoli. Perciò ci vuole durezza, ordine, oggettività, affidamento a chi ha il potere, giustizia oggettiva, senza se e senza ma. Forse, pure loro, figli di esperienze dirette in cui la soggettività libera è stata fonte di morte e dolore, non riescono a riconoscere ad essa una possibilità.

I buonisti rischiano di uccidere la verità, il contenuto, il cosa, salvando solo il modo, il come, la via per salvare l’umano; i giustizialisti, al contrario, rischiano di uccidere la via, il come, salvando solo il cosa, la verità che salva l’umano. Entrambi però, figli della post modernità non si ricordano che il vangelo non pone sul piatto una diade: verità e via. Ma una triade: “io sono la via, la verità e la vita”. E nel vangelo, via e verità stanno in armonia perché sono entrambe ancorate alla vita, alla realtà effettiva delle persone che esistono davvero. Perciò, recuperare la persona reale non è oggi solo una possibilità, ma l’esigenza imprescindibile per ritrovare il senso del vangelo e uscire dalla prepotenza post moderna.

In tempi non sospetti, cioè ancora nel 1950, uno dei più grandi teologi del ‘900 ci aveva già ammoniti che nel tempo che sarebbe venuto, al “La fine della modernità”, la verità nella sua pretesa assolutista si sarebbe trasformata in tecnica. E così facendo avrebbe cercato di rendere la natura totalmente disponibile a sé stessa, dandone una interpretazione pregiudiziale dentro a schemi ontologici e scientifici che si sarebbero presentati come assoluti. A quel punto, poi, la verità-tecnica avrebbe corroso compiutamente il soggetto, cioè la persona reale, la vita, disintegrandola nel “tritacarne” del mercato e riducendola ad una semplice variabile della verità-tecnica. Allora lo presero per pazzo e visionario, oggi è terribilmente reale.

Il paradosso della diatriba giustizialisti – buonisti è proprio questo. Nella loro “finta” battaglia rivelano come alla base entrambi producano lo stesso danno: ad essere stritolata sul serio è la persona concreta, quella che cerca di vivere, anche se non sa la sua verità e non conosce la sua via. Saremo giudicati sull’amore a questa persona, non sulle nostre idee…

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