Sui valori difesi a prescindere dalla verità

Ho riletto l'articolo all'origine del caso Sallusti. E mi chiedo se fare bene il proprio lavoro non sia il modo più diretto per mettersi al servizio della comunità
20 Novembre 2012

La vicenda comincia nel 2007. Il 17 febbraio il quotidiano La Stampa pubblica un articolo intitolato: «Torino, i genitori e il giudice tutelare vanno contro la sua volontà. Il padre è un quindicenne». Il sommario spiega: «Obbligata ad abortire a 13 anni. Dopo l’intervento finisce in psichiatria. Il primario: “È stata una violenza”». L’articolo racconta la storia di una ragazzina – “poco più che una bambina” – che, rimasta incinta, ha dovuto abortire contro la propria volontà, rimanendo traumatizzata al punto da minacciare il suicidio e da perdere il lume della ragione.

La storia è una di quelle che fanno notizia, qualunque idea si abbia di che cosa fa notizia e che cosa no. Altri giornalisti ci lavorano sopra e cercano riscontri. Anche l’Ansa lavora sul caso, e nell’arco del pomeriggio, tra le 15,30 e le 20,50, diffonde quattro take che ricostruiscono in modo molto diverso la storia. La ragazzina, che verrà poi soprannominata Valentina, ha un po’ di problemi, tra cui l’uso di alcol e di droghe. Rimane incinta e chiede alla madre di abortire. Per la legge italiana, a quell’età, c’è bisogno del consenso sia del padre che della madre. Ma lei con il padre non ci parla e non ci vuol parlare, quindi i servizi sociali e la madre si rivolgono al giudice tutelare, il quale incontra la ragazza, la madre, i servizi e sente tutti quelli che deve sentire, poi autorizza l’aborto, che viene programmato per il 12 febbraio.

I take dell’Ansa arrivano nelle redazioni in tempo utile. La storia viene raccontata nella nuova versione da alcune testate radiofoniche, e il giorno dopo dai giornali. Anche La Stampa corregge il tiro e tra l’altro scrive che il giudice Giuseppe Cocilovo «le ha dato il permesso di prendere autonomamente la decisione». E d’altra parte, la legge italiana non permette di imporre un aborto per legge.

Libero, però, persiste e pubblica sul caso due articoli. Uno è a firma di Andrea Monticone e ripropone la storia nella prima versione: il titolo è «Dramma a Torino. Costretta ad abortire da genitori e giudice. La 13enne, sotto shock, è ricoverata in psichiatria». Il secondo è a firma Dreyfus ed è un commento che inizia in prima pagina. Lo si può facilmente trovare in rete, anche su liberoquotidiano.it. Scrive Dreyfus: «…Lei proprio non voleva. Si divincolava. Non sapeva rispondere alle lucide deduzioni di padre e madre sul suo futuro di donna rovinata. Lei non sentiva ragioni perché più forte era la ragione dei cuore infallibile di una madre. Una storia comune. Una bambina, sì a tredici anni sono ancora bambine, si era innamorata di un quindicenne. Quando ci si innamora, capita: e così qualcosa è accaduto dentro di lei. Lei che era una bambina capiva di aspettare un bambino. Da che mondo è mondo non si è trovata un’altra formula: non attendeva un embrione o uno zigote, ma una creatura a cui si preparava a mettere i calzini, a darle il seno».

Ma i genitori pensano sia meglio «strappare in fretta quel grumo dal ventre della bimba prima che quell’Intruso frignasse, e magari osasse chiamarli, loro tanto giovani, nonna e nonno. Figuriamoci. Tutta ‘sta fatica a portare avanti e indietro la pupa da casa a scuola e ritorno, in macchina con la coda, poi a danza, quindi in piscina. Ora che lei era indipendente, ecco che si sarebbero ritrovati un rompiballe urlante e la figlia con i pannolini per casa. Il buon senso che circola oggi ha suggerito ai genitori: i figli devono essere liberi, vietato vietare. Dunque, divertitevi, amoreggiate. Noi non eccepiamo. Siamo moderni. Quell’altro che deve nascere però non era nei patti, quello è vietato, vietatissimo. Accettiamo che tutti facciano tutto, ma non che turbino la nostra noia. Un magistrato allora ha ascoltato le parti in causa e ha applicato il diritto – il diritto! – decretando: aborto coattivo. Salomone non uccise il bimbo, dinanzi a due che se lo contendevano; scelse la vita, ma dev’essere roba superata, da antico testamento. Ora la piccola madre (si resta madri anche se il figlio è morto) è ricoverata pazza in un ospedale. Aveva gridato invano: «Se uccidete mio figlio, mi uccido anch’io». Hanno pensato che in fondo era sì sincera, ma poi avrebbero prevalso in lei i valori forti delle Maldive e della discoteca del sabato sera, cui l’avevano educata per emanciparla dai tabù retrogradi. Che vanno lavati con un bello shampoo di laicità. Se le fosse rimasto attaccato qualche residuo nocivo di sacralità, niente di male, ci vuole pazienza. E una vacanza caraibica l’avrebbe riconciliata dopo i disturbi sentimentali tipici dell’età evolutiva».

«Non è stato così. La ragazzina voleva obbedire a qualcosa scritto nell’anima o – se non ci credete – in quel luogo del petto o del cervello da cui sentiamo venir su il nome del figlio. Ma no: non anima, né petto, né cervello. Le dava dei calci proprio nella sua pancia che le dava il vomito. Una nausea odiosa, ma così rasserenante: più antica dell’effetto serra, qualcosa che sta alla fonte del nostro essere. Si sentiva mamma. Era una mamma. Niente. Kaput. Per ordine di padre, madre, medico e giudice per una volta alleati e concordi. Stato e famiglia uniti nella lotta. Ci sono ferite che esigerebbero una cura che non c’è. Qui ora esagero. Ma prima domani di pentirmi, lo scrivo: se ci fosse la pena di morte, e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo e il giudice. Quattro adulti contro due bambini. Uno assassinato, l’altro (l’altra, in realtà) costretto alla follia. Si dice: nessuno tocchi Caino, ma Caino al confronto avevale sue ragioni di gelosia. Qui ci si erge a far fuori un piccolino e a straziare una ragazzina in nome della legge e del bene…».

 

Dentro la storia di questa ragazzina, Dreyfus legge tutti i mali della società di oggi. L’egoismo dei genitori, l’emergenza educativa, il cinismo dei laici, lo strapotere della magistratura… peccato che deduca tutto questo da una storia che non esiste, perché i conti non tornano su almeno quattro punti chiave: il giudice non ha ordianto di abortire, il giudice ha lasciato la libertà di scelta alla ragazzina, il padre non sapeva e non c’era, e infine medici e magistrati erano complici di cosa? (se non c’è il consenso della donna, si tratta di aborto procurato e prevede la reclusione da 4 a 8 anni).

Il giudice Cocilovo si è sentito diffamato e ha fatto causa. Libero non ha mai pubblicato rettifiche. Sallusti è stato condannato in quanto direttore del giornale, perché così succede quando un articolo non viene firmato. Gli viene inflitto il massimo della pena perché considerato recidivo. Da qui comincia un’altra storia, con il dibattito sull’eccessiva severità della pena, un ennesimo pietoso spettacolo delle nostre istituzioni con i parlamentari che dovrebbero correggere la legge per garantire una maggiore libertà di stampa e invece ne approfittano per vendicarsi dei giornalisti che tante volte hanno “osato” dire la verità sul loro conto e criticarli, Sallusti che viene eretto a eroe e paladino della libertà di stampa.

Ma non è questo che mi interessa qui approfondire. Mi interessa il fatto che Dreyfus è un cattolico, e che probabilmente ha scritto quel pezzo nel nome dei suoi valori di credente: i famosi valori non negoziabili, la vita sopra tutti.

Mi interessa anche il motivo per cui Dreyfus non ha firmato l’articolo: sotto lo pseudonimo si nasconde Renato Farina, giornalista cattolico, cresciuto alla scuola del Sabato, e quindi di Comunione e Liberazione, è stato il primo giornalista a scrivere di Medjugorie, noto come Agente Betulla e sospeso dall’Ordine dei Giornalisti perché pagato dal Sismi (nei pressi delle elezioni del 2006, ha pubblicato su Libero un falso dossier su Prodi). In seguito allo scandalo, nel 2008 è diventato deputato eletto nelle liste del Pdl (difficile non pensare che si sia trattato di “un premio”).

Uno che ha sempre dichiarato di avere fatto quello che ha fatto per coerenza con le proprie idee, con i propri ideali. I soldi presi dai servizi segreti, diceva, «li ho presi con l’idea, dentro la mia testa e il mio cuore, che poi mia moglie realizzava, e in parte anche io realizzavo, di fare delle liberalità nei santuari». Dicava che voleva difendere l’Italia dai terroristi, che voleva difendere la pace. Questo articolo, che è costato la condanna a Sallusti, è chiaramente un articolo improntato alla difesa dei famosi valori non negoziabili, un articolo contro l’aborto, in difesa della vita.

Solo che diceva il falso. Violando così il presupposto della deontologia giornalistica – rispettare la “verità dei fatti” -, ma anche l’etica di qualunque cittadino, laico o credente che sia. Un po’ di più quella del cittadino credente, visto che la fede dovrebbe impegnare alla ricerca della verità.

Allora, guardando a questa vicenda, mi torna la nostalgia di una parola che nella stagione conciliare si era caricata di significato, e che ora mi sembra un po’ temuta: laicità. Un laico credente è uno che si muove nel mondo portando la propria testimonianza, ma rispettandolo; che credendo in Dio non ha idoli, e quindi è libero; che pur non sentendosi del mondo sa di esseraboe nel mondo, e quindi lo ascolta e ne parla i linguaggi; che non ha bisogno di fare crociate, perché dialoga; che condivide il destino degli uomini di oggi e quindi rispetta le regole.

Fare bene il proprio lavoro è il modo più diretto per mettersi al servizio della comunità, nello stesso tempo testimoniando quello in cui si crede. Non è detto che essere cattolici ci renda migliori: vale, e questo caso lo dimostra, per i giornalisti, vale per i medici, gli idraulici, gli architetti, gli scienziati e quant’altro. Anzi, se questo essere cattolici si tinge di fanatismo, direi proprio che si finisce con il fare del male a se stessi e agli altri.

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