Di recente, abbiamo qui ricordato come l’auspicato sistema di ascolto della voce (‘non sindacalizzata’) degli insegnanti sia già previsto dalla normativa vigente. Un sistema rimasto in parte non attuato e in parte attuato in modo poco soddisfacente, dando vita ad un organo – il consiglio superiore della pubblica istruzione (CSPI) – per metà di nomina ministeriale e per l’altra metà di nomina di fatto sindacale. Ciò nonostante, ancora capace di segnalare alla controparte politica (sempre poco propensa ad ascoltarlo) anche le ombre e i difetti dei provvedimenti presi. Come dimostra quanto avvenuto ai primi di agosto in merito alle linee guida del ministero dell’istruzione (MI) per la fu ‘didattica a distanza’ (DAD), ora ‘didattica digitale integrata’ (DDI).
Come si può evincere anche dal nuovo nome, tali linee guida vorrebbero far rientrare nell’«ordinarietà», seppur «complementare», la didattica digitale per le sole scuole superiori (o meglio secondarie di secondo grado), nonostante la profonda revisione richiesta dal CSPI quale «condizione» per dare parere favorevole a tali linee guida e i (ben motivati) giudizi negativi sulla DAD espressi negli ultimi mesi da molti intellettuali ed esperti sui maggiori quotidiani nazionali. Il CSPI, infatti, ha evidenziato come in tali linee guida restino non esplicitati «i fondamenti culturali, normativi, pedagogici e metodologici» della DDI e manchino del tutto le «argomentazioni e giustificazioni di natura scientifica o pedagogica a supporto» delle attività in piccoli gruppi da svolgere oltre alla DDI, definendo queste misure come «del tutto incongrue e immotivate», «non (…) efficaci didatticamente e praticabili tecnicamente». Quasi una pietra tombale sulle indicazioni ministeriali.
Se infatti la DDI viene considerata «come una metodologia» e non «come un canale, un mediatore didattico attraverso cui veicolare attività, contenuti, collaborazioni (…) che superino la lezione frontale» (sulla cui ingiusta cattiva reputazione dovremo però ritornare), è chiaro che si finirà in quel cortocircuito per cui la didattica digitale, sia sincrona che asincrona, non farà altro che riproporre quanto già avveniva (di positivo o di negativo) in aula: «la metodologia didattica non è innovativa quando utilizza degli strumenti digitali (può essere addirittura conservativa o restauratrice di pure modalità trasmissive) e non è vero che la video-conferenza favorisca metodologie in cui gli alunni siano più protagonisti».
Sotto tale giudizio estremamente negativo cade soprattutto l’ipotesi di dividere la classe, parte in presenza e parte a distanza, per svolgere una lezione in contemporanea: una «modalità di organizzare l’attività didattica (…) profondamente errata, sia dal punto di vista concettuale che metodologico», soprattutto perché – come ricordava già Alessandra Carenzio su Avvenire (28/5/2020), per altri aspetti molto severa sulla necessità di aggiornamento digitale da parte dei docenti – «non è possibile pensare le lezioni online come se fossero in presenza (…) Lo strumento cambia il modo (…) Per questo non regge la proposta di garantire le distanze facendo sì che metà degli studenti segua le lezioni in classe e l’altra metà da casa. Uno dei due gruppi sarebbe penalizzato».
Purtroppo, però, questa è anche la soluzione verso la quale si stanno indirizzando molti istituti, non tanto per convinzione profonda dei collegi docenti e consigli di istituto, ma per evidente ‘spinta’ di dirigenti scolastici e corrispondenti uffici scolastici regionali – si spera solo perché impauriti dalle responsabilità civili e penali che ricadrebbero su di loro in caso di contagio. Nonostante il Comitato Tecnico Scientifico (CTS) sia venuto incontro al mondo della scuola stabilendo (da ultimo lo scorso 10 luglio) che il distanziamento fisico interno agli spazi scolastici non debba essere calcolato in metri quadrati, ma semplicemente in un metro lineare da bocca a bocca, con uso della mascherina durante gli spostamenti.
Criterio che avrebbe permesso di ricominciare le lezioni con tutta la classe in presenza, se il MI avesse seguito l’altro importante parere del CSPI (del 18/05/2020) che suggeriva di ridurre «il numero minimo di alunni di ogni istituzione scolastica dimensionata e il numero minimo di alunni per classe». Stante questa non riduzione, le ormai evidenti difficoltà di trovare spazi alternativi sufficientemente ampi per le classi intere ha spinto il CTS (nel verbale del 12 agosto) ad autorizzare, seppure in via assolutamente eccezionale e temporanea, il non rispetto del metro lineare, esponendosi alle ovvie perplessità del mondo della scuola, legate all’aumento dei rischi di contagio e alla fattibilità stessa della misura (può uno studente stare con la mascherina per 5-6 ore al giorno?).
Ciò dimostra ancora una volta quanto sia importante che la politica garantisca quegli strumenti giuridici che ricordavamo nello scorso articolo affinché l’istituzione repubblicana e costituzionale della Scuola, come già la Magistratura e la Sanità, possa (auto)educarsi e abituarsi a forme democratiche di autonomia, se non di autogoverno, invertendo la rotta autoritaria e burocratica che l’autonomia ha invece ormai preso. A tal proposito, il CSPI evidenzia anche la totale disinvoltura con cui le linee guida del MI – provvedimento di rango ministeriale – stabiliscono prestazioni di lavoro e orari di didattica, sui quali le decisioni spettano, rispettivamente, alla negoziazione contrattuale e alla legge.
Infine, il CSPI individua in tali linee guida una serie di gravi dimenticanze (riguardo le attività laboratoriali e quelle di orientamento – i PCTO già ASL), inesattezze (circa i docenti di sostegno che sono assegnati non al singolo alunno – come scritto nelle linee guida! – ma alla classe) ed ambiguità (circa la mancata predisposizione di una piattaforma digitale pubblica o, in subordine, di un protocollo nazionale con i gestori privati che non esporrebbe pesantemente gli istituti alla mercé di interessi economici privati); senza considerare che tutto questo «peso progettuale», con i suoi «effetti invasivi», ricadrebbe sulle spalle della comunità scolastica nel difficile periodo di riapertura, già pieno di incognite mai affrontate prima.
Il MI ha per ora ignorato quanto segnalato dal CSPI, complice anche una stampa che ad oggi ha dato poco eco a questa ‘bocciatura’. Eppure nella stessa compagine governativa (con il ministro della Salute), quando si è voluto ascoltare il parere di un altrettanto importante Consiglio Superiore (quello di Sanità), per dirimere una questione altrettanto – se non più – delicata (come quella delle linee guida in materia di aborto farmacologico), non ci si è tirati indietro, ma anzi si è seguito pedissequamente quanto ‘suggerito’ dal consiglio stesso.
Qual è il motivo di questa differenza? Si seguono i pareri degli esperti solo quando concordano con la decisione politica già presa? Oppure si ritengono i rappresentanti del mondo della scuola non in grado di esprimere pareri da cui dipende non certo la vita o la morte naturale dei cittadini, ma almeno quella culturale?
In ogni caso, tutto ciò mi ha ricordato quanto era stato evidenziato a febbraio riguardo l’esortazione apostolica Querida Amazonìa (QA) – incapace di recepire alcune preposizioni votate dalla maggioranza qualificata del Sinodo dei vescovi per l’Amazzonia – e quanto si sta facendo ora notare circa la recente istruzione della congregazione per il clero sulla “conversione pastorale della comunità parrocchiale”: gli esperti e i rappresentanti della base hanno parlato fondandosi sulle loro esperienze pastorali, ma l’istituzione ecclesiale centrale ha glissato o sta cercando di normalizzare. Per poi, invece, preoccuparsi di modificare in piena pandemia il messale provvisorio del 1962 «che è uscito dalla vigenza dal 1969 e che un Motu Proprio del 2007 pretende di aver “rimesso in vigore”» (A.Grillo), seppure come rito straordinario.
Di questi tempi c’è fuor di dubbio un mal comune tra Scuola e Chiesa, ma esso purtroppo non comporta mezzo gaudio, anzi…
Sono solo cittadina non coinvolta nel problema che si presenta irto di ostacoli a realizzare una scuola che sia apra come sempre.credo che il digitale possa supplire soltanto a interrogazioni studente/insegnante e che poi tutto dipenda da quanto in sicurezza la scuola locale offra.Consideriamo si debba fare sacrifici,anche da parte di studenti,per esempio ricevere istruzioni sul programma settimanale di materie e paragrafi da studiare e impegnarsi a studiare da casa e magari turni settimanali di lezioni cui accedere in caso di incomprensione.Cioe partire dal rendersi conto cosa sia meglio per lo studente circa il profitto.Richiedera una presenza a casa per una disciplina di studio, però va a tutto vantaggio di un maggior interesse ad apprendere e responsabilità a realizzare profitto.I tempi difficili si sono presentati anche nel passato per altri motivi compreso quello di chi è studente malato.