Se non ci saranno ulteriori precisazioni dell’ultima ora, gli italiani ascoltaranno un testo del presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj durante la serata finale del prossimo Festival di Sanremo.
Il dramma dell’Ucraina e della sua popolazione è costantemente richiamato dal Vescovo di Roma e sui media vaticani ci sono servizi giornalistici che riferiscono in maniera aggiornata il susseguirsi degli eventi. Ciò nondimeno, gli appelli di Francesco pare vadano controcorrente rispetto alla linea adoperata dagli attori di questo tragico conflitto, che ormai da quasi un anno continuano a ritenere che la soluzione dello stesso debba passare attraverso il continuo invio di armi e il dispiegamento muscolare di forze, leit-motiv tragico e, forse, sempre meno credibile.
Per questo, mettere in relazione l’annunciato intervento sanremese con il viaggio apostolico che il Vescovo di Roma ha vissuto nelle martoriate nazioni della Repubblica Democratica del Congo e del Sud Sudan significa, a mio parere, raccogliere un messaggio che può dare più di una risposta a quel che si sta consumando in terra ucraina.
Nel suo incontro con le autorità, con la società civile e con il corpo diplomatico nel giardino del “Palais de la Nation” a Kinshasa, martedì 31 gennaio 2023 Francesco utilizza l’immagine del diamante che ritorna ben dieci volte nelle sue parole.
L’abbondanza di diamanti presenti in questa terra non è meno preziosa delle ricchezze spirituali racchiuse nei cuori umani. Francesco invita ad attuare quelle capacità insite nel cuore dell’uomo, realizzando la giustizia e il perdono, la concordia e la riconciliazione, bandendo ogni violenza ed odio presenti nel cuore e sulle labbra, in quanto sentimenti antiumani ed anticristiani. Purtroppo il veleno dell’avidità ha reso gli stessi diamanti di questo pase insanguinati, giungendo al paradosso che i frutti della sua terra lo rendono “straniero” ai suoi abitanti.
Altra osservazione: il diamante lavorato presenta numerose facce armonicamente disposte. La poliedricità è una ricchezza che va custodita, senza cadere nei tribalismi e nelle contrapposizioni. Ogni interesse di parte porta ad entrare in spirali di odio e di vendetta, a svantaggio di tutti. Molto suggestivo quello che la chimica ci insegna: a seconda della disposizione degli atomi di carbonio, la pietra può realizzare un diamante lucente o, viceversa, una oscura grafite. La trasparenza del diamante che rifrange la luce in modo meraviglioso viene paragonata agli esempi di limpidezza cristallina di chi seve la società con incarichi civili e di governo non con lo spirito del potere ma con quello del servizio:
«Fuor di metafora, il problema non è la natura degli uomini o dei gruppi etnici e sociali, ma il modo in cui si decide di stare insieme: la volontà o meno di venirsi incontro, di riconciliarsi e di ricominciare segna la differenza tra l’oscurità del conflitto e un avvenire luminoso di pace e prosperità».
Altra immagine è quella del lavoro necessario perché il diamante grezzo venga lavorato. Qui c’è un appello al valore fondamentale dell’educazione per la promozione delle giovani generazioni, unito alla sofferenza per la constatazione che in questa nazione tanti bambini muoiono, sottoposti a lavori schiavizzanti nelle miniere. Gli ultimi due richiami sono, da un lato, all’immagine del diamante come dono della terra e, dunque, all’impegno di custodire il creato e proteggere l’ambiente, di cui Francesco è continuo paladino (vedi Laudato Sii e “The Letter”); dall’altro lato, al fatto che il diamante è il minerale di origine naturale con la durezza più elevata, presa a spunto per un invito alla resistenza pur nelle avversità, per costruire un futuro pacifico, armonioso e prospero.
Nell’omelia all’aeroporto Ndolo il saluto pasquale del Risorto: «Pace a voi!» (Gv 20,19) è una vera e propria consegna. Egli indica tre sorgenti di pace: il perdono, la comunità e la missione. Cristo mostra le piaghe, insegnandoci che il perdono nasce dalle ferite. Nasce quando le ferite subite non lasciano cicatrici d’odio, ma diventano il luogo in cui fare posto agli altri e accoglierne le debolezze. Allora le fragilità diventano opportunità e il perdono diventa la via della pace.
L’odio e la violenza non sono mai accettabili, mai giustificabili, mai tollerabili, a maggior ragione per chi è cristiano. Come Francesco ha ricordato nell’incontro con le vittime dell’est del paese, l’odio genera solo altro odio e la violenza altra violenza. Riconciliarsi è generare il domani: è credere nel futuro anziché restare ancorati al passato; è scommettere sulla pace anziché rassegnarsi alla guerra; è evadere dalla prigione delle proprie ragioni per aprirsi agli altri e assaporare insieme la libertà.
A tal proposito, molto interessante è stata nell’incontro con i giovani e i catechisti l’immagine della mano operosa e le sue cinque dita: preghiera, comunità, onestà, perdono, servizio. Ma ritengo che uno dei discorsi più ricchi di spunti sia stato quello alle autorità, alla società civile e al corpo diplomatico a Giuba.
Innanzitutto Francesco sottolinea la condivisione di questo “Pellegrinaggio Ecumenico di Pace” con l’Arcivescovo di Canterbury e con il Moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia, «perché nella pace, come nella vita, si cammina insieme». Cita Erodoto, che afferma come in guerra non sono più i figli a seppellire i padri, ma i padri a seppellire i figli (cfr Storie, I,87). Poi si rifà all’incontro dei due fiumi che genera nel territorio sud sudanese il Nilo Bianco:
«la limpida chiarezza delle acque scaturisce dunque dall’incontro. Questa è la via, fratelli e sorelle: rispettarsi, conoscersi, dialogare. Perché, se dietro ogni violenza ci sono rabbia e rancore, e dietro a ogni rabbia e rancore c’è la memoria non risanata di ferite, umiliazioni e torti, la direzione per uscire da ciò è solo quella dell’incontro, la cultura dell’incontro: accogliere gli altri come fratelli e dare loro spazio, anche sapendo fare dei passi indietro. Questo atteggiamento, essenziale per i processi di pace, è indispensabile anche per lo sviluppo coeso della società».
Altra interessante metafora è quella legata alla necessità di mantenere pulito il letto del fiume per prevenire le inondazioni. Egli qui indica la necessità per la vita sociale di ogni paese della lotta alla corruzione: giri iniqui di denaro, trame nascoste per arricchirsi, affari clientelari, mancanza di trasparenza. Ma la metafora ancora più attuale è quella legata alla necessità di dotare il fiume di argini adeguati:
«anzitutto va arginato l’arrivo di armi che, nonostante i divieti, continuano a giungere in tanti Paesi della zona e anche in Sud Sudan: qui c’è bisogno di molte cose, ma non certo di ulteriori strumenti di morte… tutti i bambini di questo Continente e del mondo, hanno il diritto di crescere tenendo in mano quaderni e giocattoli, non strumenti di lavoro e armi».
Infine, l’esempio del fiume che non conosce confini, ci insegna che «per raggiungere uno sviluppo adeguato è essenziale, oggi più che mai, coltivare relazioni positive con altri Paesi, a cominciare da quelli circostanti». Non a caso, nell’incontro con i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i consacrati, le consacrate e i seminaristi a Giuba, Francesco richiama il ritiro spirituale per le autorità civili ed ecclesiastiche del Sud Sudan presso Santa Marta l’11 aprile 2019, del quale tutti noi ricordiamo il segno incredibile che egli volle fare baciando i piedi dei presenti. E, nell’incontro con gli sfollati interni presso la “Freedom Hall”, Francesco ricorda il dramma che registra la più grande crisi di rifugiati del Continente (almeno quattro milioni di sfollati, con l’insicurezza alimentare e la malnutrizione che colpiscono i due terzi della popolazione) e rivolge ai giovani il seguente invito:
«una nuova narrativa dell’incontro, dove quanto si è patito non sia dimenticato, ma venga abitato dalla luce della fraternità; una narrativa che metta al centro non solo la tragicità della cronaca, ma il desiderio ardente della pace. Siate voi, giovani di etnie diverse, le prime pagine di questa narrativa! Se i conflitti, le violenze e gli odi hanno strappato via dai buoni ricordi le prime pagine di vita di questa Repubblica, siate voi a riscriverne la storia di pace!».
Il viaggio apostolico si conclude domenica 5 febbraio con una significativa omelia durante la celebrazione eucaristica presso il Mausoleo “John Garang” (Giuba). In essa il vescovo di Roma invita a riflettere su cosa significhi essere “operatori di pace” (Mt 5,9):
«Ecco la pace di Dio: non solo una tregua tra i conflitti, ma una comunione fraterna, che viene dal congiungere, non dall’assorbire; dal perdonare, non dal sovrastare; dal riconciliarsi, non dall’imporsi… Chi si dice cristiano deve scegliere da che parte stare. Chi segue Cristo sceglie la pace, sempre; chi scatena guerra e violenza tradisce il Signore e rinnega il suo Vangelo… Chi si professa credente non vi sia più spazio per una cultura basata sullo spirito di vendetta; perché il Vangelo non sia solo un bel discorso religioso, ma una profezia che diventa realtà nella storia. Operiamo per questo: lavoriamo per la pace tessendo e ricucendo, mai tagliando o strappando… Nel nome di Gesù, delle sue Beatitudini, deponiamo le armi dell’odio e della vendetta (…); superiamo quelle antipatie e avversioni che, nel tempo, sono diventate croniche e rischiano di contrapporre le tribù e le etnie; impariamo a mettere sulle ferite il sale del perdono, che brucia ma guarisce. E, anche se il cuore sanguina per i torti ricevuti, rinunciamo una volta per tutte a rispondere al male con il male, e staremo bene dentro».
I drammi del continente africano, non hanno niente di meno drammatico e di meno ingiusto del dramma che sta vivendo il martoriato popolo ucraino (insieme con quelli delle popolazioni del Sud Sudan, dello Yemen, della Siria, della Palestina, del Myanmar e non solo, più volte ricordate nei mesi scorsi negli interventi di Francesco). Ma la ricetta del Vescovo di Roma è un’altra. Non armi, odio, conflitto. Piuttosto “giustizia, perdono, concordia, riconciliazione”.
Vale per le etnie martoriate delle nazioni della Repubblica Democratica del Congo e del Sud Sudan e con esse per quelle dell’intero continente africano, idealmente abbracciato da questo “Pellegrinaggio Ecumenico di Pace” con l’Arcivescovo di Canterbury e con il Moderatore dell’Assemblea Generale della Chiesa di Scozia. Ma vale anche per i popoli fratelli russo e ucraino, purché i responsabili delle parti ricomincino a parlare di negoziati, ormai interrotti dieci mesi fa…