Rock in Afghanistan?

L'utopia della musica di un mondo migliore da una parte, i regimi teocratici, le strutture economiche e gli interessi della bassa politica dall'altra: chi vincerà?
18 Agosto 2021

Le drammatiche vicende che stanno interessando l’Afghanistan in questi giorni mi hanno fatto tornare in mente il videoclip di Rock the casbah dei Clash.

Con la nota vena ironica la band inglese decise di farsi riprendere nei pressi di un pozzo petrolifero, mentre nel contempo metteva in parallelo le vicende di un arabo e un ebreo chassidico, appartenenti a due mondi letteralmente opposti, seppur uniti dalla stessa radice abramitica, che viaggiavano insieme inseguiti da un armadillo. Lungo il tragitto si lasciavano trasportare dalla musica, irrompevano sui vari scenari dettati dal denaro e dal fanatismo al ritmo di una danza forsennata, uniti dal desiderio di liberazione…

Per comprenderne però bene la vena sarcastica del testo occorre inquadrare il contesto nel quale il pezzo è stato concepito: siamo verso la fine degli anni ’70, e l’Iran, attraverso l’opera di restaurazione dell’Aytatollah Komehini diventò una teocrazia islamica. Furono immediatamente promulgate tutta una serie di leggi atte a ripristinare la moralità secondo la visione della Sharia. Tra queste abbiamo in particolare l’obbligo della niqǟb per le donne oltre all’abbassamento dell’età matrimoniale a nove anni sempre per la popolazione femminile, l’inasprimento delle pene per i reati di blasfemia (ne saprà qualcosa il celebre scrittore Salman Rushdie, colpito dalla fatwa di Khomeini nel 1989 con relativa condanna a morte per la pubblicazione del libro I versetti satanici, ispirati dai versi 19 e 20 della 53° sura, considerati successivamente apocrifi) e adulterio. Unito a queste restrizioni c’era anche il divieto di ascoltare e promulgare la musica rock (un testamento di tale divieto è riportato nel film Persepolis).

Rock the casbah fu inserito nell’album Combat rock, pubblicato nel 1982, e seppur non faccia diretto riferimento alle leggi di Khomeini, la canzone disegna ugualmente uno scenario lontano delle strade infuocate della Londra del punk o dalla rivoluzione sandinista in Nicaragua, e più squisitamente mediorientale. Oltre lo sberleffo verso le restrizioni del regime c’è un chiaro invito alla disobbedienza civile, ad inseguire ciò che è giusto anche se non è considerato conforme alle norme (By order of the prophet/We ban that boogie sound/Degenerate the faithful/With that crazy Casbah sound), perché solo in questo modo l’uomo può abbattere le strutture ideologiche per incrociare lo sguardo dell’altro, oltre a rivendicare la libertà della propria coscienza.

Gli anni ’70 però furono anche il decennio della cosiddetta “crisi petrolifera”, che vide sia nel 1973 che nel 1979 un brusco rialzo del prezzo del petrolio, con evidenti impatti sull’economia energetica occidentale, i cui governi non mancarono di avviare i vari tentativi di destabilizzazione del Medioriente per il controllo del petrolio. E nel testo della canzone i Clash non mancarono di stigmatizzare anche il finto progressismo dell’imperialismo economico degli Stati Uniti e delle superpotenze occidentali, scrupolosamente attente ai propri interessi e disposte a tutto per poterli conservare. Il verso “The king called up his jet fighters/He said you better earn your pay/Drop your bombs between the minarets/Down the Casbah way/As soon as the Shareef was/Chauffeured outta there/The jet pilots tuned to/The cockpit radio blare/As soon as the Shareef was/Out of their hair/The jet pilots wailed”, allude chiaramente alle operazioni militari e alle strategie di destabilizzazione, oltre che all’incentivo delle sacche del fanatismo religioso.

I Clash, da ferventi combattenti e irriducibili antifascisti, vollero che questo manifesto sonoro divenisse non solo l’inno di chi rivendicasse la libertà e la dignità dei popoli, ma anche l’arma non violenta per sconfiggere il fanatismo e le sue leggi assurde. Sapevano che la musica è quel veicolo non violento che può scatenare le rivoluzioni più potenti, proprio perché può infondere a chiunque forza, coraggio e speranza…

Tuttavia l’11 settembre 2001 è una data che facciamo fatica a dimenticare. All’epoca non avevo ancora compiuto vent’anni, e ricordo esattamente quei momenti, quando la morte e la devastazione sospesero il tempo delle nostre abitudini quotidiane: gli aerei di linea dirottati lanciati sulle torri del World Trade Center di New York (seguiti da un terzo lanciato sul Pentagono, e da un quarto che probabilmente come obiettivo aveva la Casa Bianca, poi, si dice, caduto in una piana della Pennsylvania per via dell’eroismo dei passeggeri che si opposero ai dirottatori), il crollo delle torri, le persone intrappolate nell’edificio che si lanciavano nel vuoto, le urla al telefono di chi cercava di dire addio in modo disperato ai propri cari, parevano talmente surreali da sembrare scene di un brutto film d’azione… Quel giorno scoprimmo di avere un nuovo nemico: il terrorismo islamico, perfettamente condensato nei videomessaggi deliranti di Osama Bin Laden, leader di una rete mercenaria di nome Al Qaeda, ricercato internazionale per crimini gravissimi, tra i quali c’era il coinvolgimento diretto nell’attentato dinamitardo alle Ambasciate Statunitensi di Nairobi del 7 agosto 1998. In quei video accusava l’occidente crociato e invitava tutti i fedeli mussulmani alla Jihad. Il governo americano, che all’epoca era guidato dal Presidente George Bush Jr, decise di reagire con forza e risolutezza, dichiarando guerra il mese successivo all’Afghanistan, poiché si riteneva che il governo talebano fiancheggiasse il terrorismo internazionale, e successivamente di attaccare l’Iraq, accusando il dittatore Saddam Hussein di possedere pericolose armi di distruzione di massa. Le chiamarono “guerra preventiva” al terrorismo…

La caduta del regime talebano e la capitolazione di Saddam Hussein furono salutati da tutti i media occidentali come eventi storici cruciali, perché chiudevano una stagione fatta di fanatismo e repressione. Tutti i governi occidentali, a cominciare da quello americano, promettevano di mettere in atto tutti gli sviluppi possibili e necessari per poter avviare una rinascita democratica in Afghanistan e in Iraq. Non mancarono comunque le numerose voci critiche delle milioni di persone che scesero per le strade e per le piazze a contestare quelle operazioni, facendo notare come le “guerre preventive” non facevano altro che rispondere al fanatismo con altrettanto fanatismo di stampo patriottico e nazionalista, e che i processi democratici non si inaugurano con i bombardamenti sui civili, le deportazioni, le torture e l’appoggio di governi fantocci. C’era il sentore quindi che qualcuno stesse mentendo, e che i vari appelli alla democrazia e alla civiltà altro non fossero che un pretesto “nobile” per legittimare ancora una volta il proprio predominio militare ed economico.

Giovanni Paolo II d’altro canto a più riprese aveva scongiurato il pericolo di trasformare questi conflitti in una sorta di guerre di religione e di civiltà, invitando i leader mondiali al dialogo e alla diplomazia e a non far ricorso alle armi, e nello storico secondo incontro interreligioso tenutosi ad Assisi il 24 gennaio 2002 aveva ribadito con forza che “le religioni sono al servizio della pace”.

L’utopia di un mondo migliore da una parte dunque, i regimi teocratici, le strutture economiche e gli interessi della bassa politica dall’altra… Inevitabilmente questo mi fa pensare a ciò che è successo in Medioriente negli ultimi vent’anni, e come l’avanzata talebana di questi giorni rappresenti oltre che un pauroso passo indietro, il fallimento della politica e della strategia dei paesi occidentali, che han tentato di esportare dapprima la democrazia con i missili e poi se ne sono “lavati le mani” lasciando quelle popolazioni al proprio destino quando gli interessi sono ormai finiti. Ma questo mette ancora più in evidenza un’altra sconfortante realtà: l’occidente non ha altra identità ormai che l’anelito al denaro, l’individualismo come stile di vita, la retorica come struttura di pensiero, il disinteresse come soluzione finale. Non si può pretendere una rivoluzione democratica e il progresso di una sana laicità inclusiva se alla base non c’è il presupposto del dialogo e del riconoscimento delle identità. Non si possono costruire ponti se la nostra società si sta lasciando logorare da certezze che hanno sempre più la conformità dialettica degli slogan, che han preso il posto dell’appassionata ricerca del bene comune. Tutto questo sta soppiantando le utopie, sta mortificando la speranza…

2 risposte a “Rock in Afghanistan?”

  1. Emanuela Sangaletti ha detto:

    Grazie davvero!
    Auguro a me stessa e a chiunque legga con approvazione questo articolo
    di credere nelle infinite risorse che sono in noi per Grazia e vivere la propria vita, ovunque si svolga, nel segno del dialogo, della mitezza, della prossimità, della non violenza, della pace.
    Ne abbiamo tutti tanto bisogno.
    Penso questo sia ciò che rende davvero onore all’articolo.

  2. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    E’ difficile. conoscere la verità cha ha spinto Paesi a invadere altri;, sempre vengono addotti giustificati motivi anche a giustificare l’impiego di forze armate e la perdita di vite umane per ideali che non vengono raggiunti.. Ha colto di sorpresa come il caldo anomalo di questi giorni, la precipitosa ritirata delle Forze Armate americane dall’Afganistan, quanto come rapidamente le forze Talebane abbiano completato .l’occupazione del Paese Erano accordi già stipulati, riferiscono, ma è sembrata invece una precipitosa fuga definita quasi “debacle”,non aver opposto colpo d’arma. La cultura a libertà se esportata deve come il Vangelo, essere fatta conoscere, desiderata, . Sia questo esempio : Un basta guerre!!.Speriamo in Afganistan sia rimasto un resto Che abbia apprezzato l’esperienza vissuta tanto da diventare nuova partenza per altri sperati obiettivi di benecomune al loro popolo

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