Martedì 24 ottobre l’Islanda si è bloccata per un imponente sciopero, che ha coinvolto tutte le categorie di lavoratori, anzi, di lavoratrici. Si sono fermate decine di migliaia di donne, insieme alle persone cosiddette “non binarie”, per chiedere di migliorare la condizione salariale e sociale femminile, e la Prima Ministra Katrín Jakobsdóttir si è unita alle proteste. Non si sono fermate solo sul posto di lavoro, ma hanno lasciato agli uomini anche tutto l’impegno domestico che ricade sulle loro spalle e che tendiamo a dare troppo per scontato. Un po’ come accadde nell’ormai lontano 1975, quando la quasi totalità delle donne si astenne dalle attività lavorative e casalinghe: «quello sciopero, noto come Kvennafrídagurinn, “il giorno libero delle donne”, è considerato un momento fondamentale per i progressi fatti dall’Islanda sulla parità di genere». Da quel momento, infatti, il paese è diventato un faro in Europa e nel mondo da questo punto di vista, tanto che il World Economic Forum (ci spiega Il Foglio) lo colloca al primo posto della classifica che misura la parità di genere nel mondo, nonostante tutto. Fu l’Islanda, nel 2010, ad eleggere la prima premier al mondo dichiaratamente omosessuale, Johanna Sigurdardottir, dopo mesi di proteste contro una violenta crisi economica, secondo lei determinata da un «eccesso di testosterone». Lei si pose come alternativa, dichiarando che «c’è un modo femminile di stare sul mercato come nella politica, lontano dalle avventure».
Ma esiste davvero un “modo femminile” di stare al mondo, alternativo a quello maschile? Mi viene in mente un altro sciopero delle donne, quello immaginato da Aristofane nella Lisistrata, commedia in cui le ateniesi e le spartane cercano di far cessare la guerra che imperversa nel Peloponneso, privando dell’amore i propri mariti. Al netto del carattere eccessivo e volgare tipico della comicità greca, il tema è scottante e la spiegazione la dà Lisistrata in persona: «siamo noi a portare il peso della guerra, più del doppio: partoriamo i nostri figli e li mandiamo a farei soldati. […] Quando avremmo potuto essere felici e goderci la nostra giovinezza, per colpa della guerra siamo costrette a dormire sole. E lasciamo anche perdere il nostro caso, ma io soffro al pensiero delle ragazze che invecchiano nelle loro camere».
Se, come già in altre occasioni (ne abbiamo parlato qui), i grandi esclusi dalle proteste siamo sempre noi maschi etero, vuol dire che una parte del problema sta proprio nel “modo maschile” di fare le cose, qualunque cosa voglia dire, e noi maschi dovremmo iniziare a farcene carico. Intanto, leggiamo storie di donne che, in altre parti del mondo, di questo problema si fanno attivamente carico, ribaltando la percezione tradizionale dei ruoli sociali, «sono storie di donne, giovani e anziane, storie individuali e collettive che raccontano di un nuovo protagonismo femminile dove non sono più solo vittime e facile merce di ricatto» (Il Riformista).
Mentre nel mondo imperversano conflitti muscolari, violenti, che rappresentano tutto il peggio che il maschile possa offrire, «macerie di umanità, pianti e lutti, follie e abissi, retoriche e complicità, bombe e sepolture, innocenti sottratti alla luce» (Sergio Di Benedetto), le donne interpretano in maniera assai diversificata il proprio ruolo, spesso con pochissima libertà di scelta. Come in Israele, dove, da un lato c’è chi viene coinvolta direttamente nelle attività belliche, in quello che la nostra stampa frettolosamente liquida “il plotone delle soldatesse”: «così cancelliamo i pregiudizi sulle donne», dichiarano i loro comandanti… maschi! Dall’altro c’è chi è coinvolta meno direttamente, come la mia amica Chiara che in Israele vive e assiste il proprio compagno chiamato alle armi. Dal suo punto di vista riesce a mantenere una posizione meno parziale sul conflitto, cercando di interpretarlo meglio che può: «qui ho la mia vita ormai», dichiara, «posso dare una mano anziché stare a casa», ricoprendo un ruolo di ausilio agli amici costretti a combattere, percepito come più tradizionalmente “femminile”. Infine c’è Yocheved Lifshitz, attivista israeliana rapita da Hamas che, appena liberata, saluta il suo aguzzino dicendogli “shalom”, e lasciando al mondo intero una testimonianza di quell’amore verso i nemici che è il solo che possa davvero interrompere la catena di odio.
Evidentemente, parafrasando la Sigurdardottir, c’è un modo femminile anche di fare la guerra e un modo -altrettanto femminile- di opporvisi. Eccolo il vero contrappeso all’eccesso di testosterone, che oltre alla sofferenza dei più poveri sta causando un aumento drammatico delle disuguaglianze economiche. Perché la sua voce ci arriva così flebile?
E’ un dato di fatto che la donna in tutti i tempi ha assunto ruoli anche quelli solitamente ricoperti da uomini quando come nel caso di assenza per cause belliche quelli erano assenti. Non solo, ma in ogni campo scientifico, letterario, figura la sua statura intellettuale, magari non sempre le è stato ceduto il privilegio. Quanto sia importante il suo ruolo di genitrice che assolve con zelo anche quello di educatrice nella trasmissione di valori in famiglia, lo possiamo constatare da ciò che loro, quelle madri ci hanno ininterrottamente trasmesso fino a oggi. Ci accorgiamo di quanto è mutata la società venendo meno quella cura rivolta alla famiglia, per il mutare della società che nell’evolversi ha richiesto priorità è valori altri, anche dalla donna una apporto delle sue peculiarità e talenti a favore di un benessere economico il quale ha appesantito il suo onere lavorativo Il mercato e fiorente anche sfruttando proprio la donna e non sempre in rispetto della sua dignità