Non è vero che siamo buoni. Sapremo diventarlo?

C'è il rischio che il coronavirus nasconda le altre "malattie" di cui soffriamo. Ma che dobbiamo affrontare. Meglio prima che dopo
2 Aprile 2020

Eppure io sono preoccupata. Perché adesso va di moda dire che l’emergenza del COVID19 ci ha fatto diventare tutti migliori e invece io non ci credo, credo invece che andrà bene se non sarà come prima. Sì, vedo tanti ragazzi che negli androni dei condomini hanno appeso un foglio, offrendosi di fare la spesa per chi è in difficoltà. Tante associazioni che, nonostante abbiano dovuto sospendere le loro attività ordinarie, continuano come possono a occuparsi dei più poveri e dei più soli, barcamenandosi tra le regole, gli strumenti virtuali e la mancanza di mascherine. Emergency e altre Ong che mettono a disposizione i loro medici e altri aiuti. I medici, gli infermieri, gli operatori della sanità che resistono in turni massacranti e con un livello di rischio altissimo. La gente che fa i flash mob dai balconi, per dire “non siamo soli”. La riscoperta dell’Inno di Mameli, della bandiera e l’orgoglio di essere italiani.

Ma vedo anche altre cose. Generose donazioni fatte da gente che sarebbe stato meglio avesse pagato le tasse (come quel famoso signore che ha evaso 369 milioni, e per l’emergenza ne ha donati 10). Messaggi di resistenza popolare trasformati in strumenti di marketing (nel supermercato dove faccio la spesa, l’arcobaleno disegnato da un bambino con l’hastag #insiemecelafaremo è diventato un manifesto accuratamente stampato accanto al logo della catena). Gente presa dal demone della delazione, che pubblica sui social le foto di chi è per strada e invoca pene sempre più severe (ma che ne sai del motivo per cui quella persona è uscita?), perché se il capro espiatorio non può essere più l’immigrato, può esserlo il vicino di casa. Complottisti e complottardi come sempre padroni dei social, mentre ci sono politici che passeggiano tenendosi per mano con la fidanzata, in una via del centro dove non ci sono negozi di alimentari.

La paura ci spinge a cercare forme di resistenza, è vero, e ci fa scoprire che siamo dipendenti gli uni dagli altri. Ma proprio questo è il punto: scoprire che siamo inter-dipendenti non significa sentirsi comunità. Non significa volerla costruire. Perché, semplicemente, l’emergenza ci ha costretto a mettere tra parentesi i nostri problemi comuni, quelli su cui ci scontriamo tutti i giorni. E a cui non riusciamo a trovare soluzioni condivisibili sulla base di valori condivisi.

Anche nelle emergenze le mafie prosperano. Anche nel tempo del Coronavirus in Siria si combatte e nel Corno D’Africa si rischia la carestia per le cavallette. La recessione che la pandemia porterà con sé non spingerà certo gli evasori (tanti!) a pentirsi e a pagare le tasse per so stenere il nostro sistema scolastico, la ricerca, la sanità, l’assistenza. Nel nostro sistema sanitario torneranno le liste d’attesa insopportabili e la corruzione. I poveri saranno molti di più e faremo più fatica a nasconderli, torneremo a pensare che l’immigrazione sia il più grande dei nostri problemi e a parlare male del volontariato, delle ONG e del non profit e di chiunque creda che la solidarietà è un valore. Le chiese non saranno più vuote come adesso, ma torneranno semivuote come erano prima, mentre i cattolici protestanti continuano a diffondere veleno sul Papa e sui vescovi. Tutti quelli che adesso cercano di essere buoni saranno nuovamente accusati di buonismo; chi oggi cerca di essere gentile, tornerà ad essere considerato uno stupidotto.

Eravamo malati di rancore, prima che di Coronavirus, e non ne siamo guariti: le nuove malattie non curano le vecchie, al massimo le nascondono per un po’ di tempo. Un esempio? La valanga di insulti che ha accolto il ritorno di Luca Tacchetto e Edith Blais, sequestrati in Burkina Faso nel 2018 e rimasti prigionieri per 15 mesi: «Chissà quanto abbiamo dovuto pagare per questi due dementi!», «Questi se la sono andati a cercare!!! Mastateveneacasa!!!», «Imbecilli», «Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, ma chi volete prendere per il c***».

Il 27 marzo papa Francesco ci ha ricordato che «Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato». Ci ha invitato ad una conversione che è spirituale, per chi crede, ma è anche una convesione negli stili di vita, nei modelli di sviluppo, nella qualità delle relazioni – per chi crede e chi non crede. Una conversione a 360 gradi, nello spirito della Laudato Si’.

Ma non può essere solo la paura, la molla per una conversione così globale. Se la consapevolezza che siamo tutti sulla stessa barca si fonda solo sulla paura, evaporerà al primo raggio di sole.

La vera domanda che oggi dobbiamo porci è: come facciamo, nonostante siamo chiusi in casa, nonostante l’ansia per noi e per i nostri cari, nonostante il lavoro che stiamo perdendo, come facciamo a non tornare quello che eravamo prima? Come facciamo a diventare migliori? Come facciamo a fare in modo che lo diventi la nostra società?

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