La solitudine del politico cattolico

Pacche sulle spalle? Incoraggiamenti? Parole di speranza? Poche. Sostegno? Stima? La prima preoccupazione è spesso quella di evitare strumentalizzazioni
22 Marzo 2012

No, non è per niente facile per un cattolico ecclesialmente impegnato vivere una dimensione propriamente politica o anche solamente sfiorarne le dinamiche concrete. In effetti, come ebbe a dire don Tonino Bello, quella del politico “oggi è davvero una vita scomoda”. Anzi una vita “crocifissa”, soprattutto per chi (penso, ce ne siano!) si sforza di vivere questa scelta come “arte nobile e difficile” (Gaudium et Spes n.86) e come “maniera esigente di vivere l’impegno cristiano a servizio degli altri” (Paolo VI).
Scetticismo, cortigianeria, sufficienza altezzosa, isolamento, prese di distanza strumentali, critiche sorde, ironie anche perfide, riserve mentali: il tessuto ecclesiali offre anche questo al cattolico impegnato che scelga di fare il salto e di impicciarsi di politica oggi.
Pacche sulle spalle? Incoraggiamenti? Parole di speranza? Poche. Sostegno? Stima? La prima preoccupazione, paternalistica ed interessata, è spesso quella di evitare strumentalizzazioni. Attenzione alla scelta personale e vocazionale del credente? Accompagnamento spirituale? Raro.
Importante è che l’istituzione di tutti non sia “sporcata” dall’impegno di parte di chi, fino al giorno prima (che so?!) organizzava le veglie in parrocchia o seguiva i gruppi dei giovani! Perché è lapalissiano che se, ad esempio, sei consigliere comunale, poi non puoi più svolgere un servizio ecclesiale (catechista, educatore,animatore, componente del consiglio pastorale ecc..), anche se lo svolgi in maniera egregia. Lo richiede la prudenza, lo impone un mondo che facilmente equivoca!
Insomma il salto in politica del credente impegnato deve essere il più possibile indolore per l’istituzione che deve restare di tutti. È una scelta personale che non deve minimamente toccare o coinvolgere la comunità ecclesiale. Qui sta il punto!
A forza di invocare questa “nuova generazione di cattolici”, di criticare l’attuale offerta politica esacerbata dal conflitto e attendere messianiche “scomposizioni e ricomposizioni del quadro politico”, abbiamo forse dimenticato che, fino a prova contraria, la politica si fa nei partiti che ci sono e che le scelte politiche vengono prese da chi ha più voti,organizzandosi in soggetti collettivi, i partiti, che non nascono dall’oggi al domani.
Non si tratta di rimpiangere vetusti collateralismi, ma di prendere atto della schizofrenia di un contesto ecclesiale che spinge all’impegno politico i credenti ma poi li lascia in balia di un mondo “diverso ed alternativo” che non conoscono, segnato da logiche ben diverse da quelle che hanno appreso nel corso della propria formazione . Tanti tentennano nell’impegno, e a ragione!
Qui ci sforziamo di vivere il senso della comunione ecclesiale e della carità, spesso sterilizzando anche eccessivamente la differenza di posizioni e sensibilità, lì sbattiamo contro il conflitto aspro non solo tra partiti ma soprattutto all’interno della parte in cui si sceglie di militare; qui la logica dell’ultimo posto, lì la logica della affermazione di sè; qui la logica della croce, lì la logica del successo.
Tuttavia nulla di tutto quello che si trova lì, nella logica politica, deve stupirci: la conflittualità è connaturale alla politica; l’occupazione dei primi posti è una esigenza fondamentale; la tensione al successo un dato strutturale dell’azione stessa. Politica è sì servizio al bene comune, ma anche (in concreto) gestione del potere sulla cosa pubblica ed organizzazione degli interessi per la trasmissione alle istituzioni della “domanda politica” proveniente dalla società. In sostanza chi sceglie di impicciarsi di politica, non può accontentarsi dell’impegno di testimonianza, ma deve puntare al successo, “in uno stretto crinale che separa gli opposti del machiavellismo e del velleitarismo” (Giorgio Campanini), altrimenti la sua sarebbe un’azione impolitica!
Ma non finisce qui! Infatti il credente, fatto il salto, si trova a dover fare i conti con un mondo di relazioni dal tutto diverse dalle proprie abituali, anche se non del tutto sconosciute visto che certe logiche “politiche” non sono estranee al concreto vissuto ecclesiale.
Ciò non toglie che il mondo politico sia istituzionalmente un mondo “estraneo ed alternativo” a quello ecclesiale, un recinto diverso. Chi sceglie di fare il salto è allora chiamato a scegliere come entrare in questo nuovo recinto. A questo punto mi lascio aiutare da una pericope evangelica, quella del buon pastore – “chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore” (Gv, 10 1-2) – che sembra proporre una efficace alternativa per chi voglia entrare nel recinto politico: l’impegno da ladro/brigante o da pastore.
Ladro e brigante è chi non vuole il bene delle pecore (i politici). In fondo al ladro non gli importa un fico secco di queste persone! Già, sapete, anche quegli imbroglioni dei politici di professione sono persone! La supponenza lascia credere al brigante di essere migliore di loro. Vuole solo approfittarne o carpendo posizioni e rendite; non passa dalla porta come tutte le pecore, e tende a sfuggire al tirocinio che impone l’arte “nobile e difficile” della politica, forse perché si sente cattolico ( a che serve questa etichetta in politica?) e, perciò stesso, ricco di moralità da spendere come arma “contro” chi ne sia sprovvisto.
Pastore è invece chi vuole il bene delle pecore che trova nel recinto, ne ha persino cura e vi entra in relazione passando dalla porta come entrano tutte; la sua voce non è estranea a chi sta nel recinto perché prima di tutto ha costruito un tessuto di relazioni significative e,perché no, autentiche con queste persone. Non vuole approfittarne, non crede di essere portatore di alcunché che non sia se stesso e la sua esperienza. E’ un moderato nel senso che accetta il conflitto, ma lo limita e circoscrive. E’ convinto che un Figlio di Dio vale più delle idee che rappresenta e, per questo stesso, è disposto a discuterle. Cerca di dare il contributo che può al meglio che può. Non gli serve presentarsi come “cattolico in politica”, perché per lui parla l’eloquente coerenza del comportamento e delle scelte.
In sostanza: per iniziare un percorso nobile e difficile di apprendistato politico, non basta fare il salto ma occorre anche cura delle relazioni, stima possibilmente reciproca, autenticità con questo mondo diverso ed alternativo. Ricordava Mazzolari che occorre essere uomini reali e non comparse. Saggiamente il magistero paragona la politica ad un’arte. Un’arte che non si impara nelle scuole ma sul campo stesso della politica, tra fallimenti, rischi, fraintesi e, perché no, successi.
Per preparare i credenti a questo iato negli anni sono state organizzate nelle diocesi d’Italia varie “scuole di formazione politica”, non ultima quella grande scuola di formazione politica che è stata l’ultima settimana sociale dei cattolici italiani che ha addirittura stilato un’agenda di priorità.
Beh… mi permetto di aggiungere che oltre alle agende di cose da fare, ai programmi ed alle discussioni politiche (molto interessante il dibattito sull’ultimo libro di Diotallevi!), occorrerebbe oggi alla Chiesa italiana una maggiore attenzione alla spiritualità della politica per affrontare questa contrapposizione di logiche delineata con la dovuta maturità, sia nell’ottica individuale di ciascun credente che decida di rischiare in questo campo, sia nell’ottica comunitaria delle nostre comunità che attualmente non paiono pienamente pronte ad accogliere e, perché no, sostenere chi scelga di affrontare questa esigente, difficile e nobile strada.

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