«Dai sindaci fino alle più alte cariche dello Stato, deve anzitutto andare la nostra gratitudine e il nostro sostegno, accompagnati dalla preghiera della comunità cristiana», perché – tra le altre cose – «il Paese necessita di segnali incoraggianti verso il mondo della scuola»: «la pandemia sta, infatti, incidendo pesantemente sui contesti educativi delle nuove generazioni … È pertanto urgente intervenire a sostegno di questi ragazzi». Alle parole quaresimali del cardinal Bassetti ha risposto il presidente del consiglio Draghi dopo Pasqua: «Dal 26 aprile, nelle regioni ‘gialle’ e ‘arancioni’, le scuole riapriranno in presenza al 100%». La scorsa settimana, dunque, i nostri ragazzi sono finalmente tornati tutti a scuola? Ovviamente no.
Nulla è cambiato da quando è in carica il nuovo governo riguardo a spazi scolastici, trasporto pubblico, tracciamento dei contatti (anzi, qualcuno farebbe notare che si sono interrotte – proprio ora! – le vaccinazioni del personale scolastico). Di conseguenza, quale decisione poteva emergere dal serrato confronto tra le istituzioni competenti per il rientro in classe? Ministri, presidenti di regione, sindacati rappresentativi, associazione presidi – in assenza, come al solito, di un ascolto degli insegnanti (anche solo attraverso il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione) – avevano raggiunto un accordo volto ad aumentare la presenza minima e massima nelle aule (dal 50-75% al 60-100%). In realtà, poi, il Presidente Draghi ha voluto che la percentuale minima fosse fissata al 70%, con uno “strappo istituzionale” che ha provocato una lettera ufficiale di protesta da parte dei Presidenti delle Regioni. Alla fine, i vari Uffici Scolastici Regionali, consapevoli delle realtà scolastiche territoriali, hanno dovuto concedere diverse forme di “deroga” (al 70%) per oggettive impossibilità di rispettare i criteri di distanziamento (invitando a dare la precedenza alle classi dell’ultimo anno).
Questo esito – che è stato definito sui quotidiani l’«ennesimo dietrofront del governo» condito da «un ridicolo balletto» delle percentuali – era facilmente prevedibile. Ne avevo scritto subito su facebook, segnalando una serie di difficoltà ulteriori del tutto sottovalutate e che renderanno, con l’arrivo del caldo (e nella perdurante assenza di impianti di aerazione), questo periodo finale ancora più faticoso: su tutte gli «assurdi» doppi turni di lezione e la necessità (causa varianti) di usare le mascherine FFP2, con spiegazioni, interrogazioni e intervalli effettuati in semi-apnea, con voce sempre più roca e spesso immobili al banco, sforzandosi oltremodo di cogliere quanto viene detto durante la fase dialogata delle lezioni. Per non parlare della difficoltà di contemperare le inevitabili verifiche finali – da vivere più come luogo di scoperta che di prestazione (secondo quanto giustamente suggerito da G.Zagrebelsky e A.D’Avenia) – con la necessaria accoglienza e cura dei risvolti psicologici relazionali legati al rientro in presenza (cui invitano C.Saraceno e M.Recalcati). O di alcune proposte di «fantasia», con le parole stesse di Agostino Miozzo, riguardo la «scuola all’aperto» (ma dove li metti 500-600 alunni? sotto il sole per cinque ore e fino alle 15-15.30?); o da parte dello stesso Miozzo, dei presidenti Bonaccini e Zingaretti e del presidente dell’ANCI Decaro (secondo quanto riportato da Corrado Zunino) relativamente al «diluire le lezioni al pomeriggio», considerate irricevibili dai ragazzi e dalle loro famiglie prima ancora che dai presidi e dal personale scolastico.
Questa volta, però, sembra che i vari commentatori non si siano scagliati contro il mondo della scuola, colpevolizzandolo per la mancata riapertura in presenza al 100%, ma si siano limitati ai presidenti delle regioni e, ovviamente, ai sindacati: «sarebbe bastato allungare l’anno scolastico come aveva detto il premier in Parlamento, invece i sindacati non hanno voluto. Per colpa loro ci dobbiamo inventare le metropolitane che volano» (M.S. Gelmini, La Repubblica 22 aprile).
È bene però ricordare che proprio al ministro Gelmini è legata la normativa (artt. 9-11.16-17, d.p.r. 81/09) che, per soli motivi di risparmio della spesa pubblica, ha elevato il numero di minimo di alunni presenti per classe, determinando oggi il vero nodo che trascina con sé quasi tutti gli altri problemi legati alla sicurezza sanitaria (restando a sé stante quello relativo ai trasporti, ma solo per questioni pratiche, non certo per gli identici motivi politico-ideologici che lo rendono tale). Di questo sembra essersene resa conto anche Gianna Fregonara, mai tenera verso il mondo della scuola, nel momento in cui valuta come la «soluzione più logica» (soprattutto per le superiori e per le aree metropolitane: il 20-30% delle classi) l’intento del ministro Bianchi di «cominciare a ridurre la numerosità delle classi», nonostante la stessa Azzolina, da ministra, «sia stata costretta ad accantonarla: troppo costosa, come le ha risposto il ministero dell’Economia dopo una simulazione dei tecnici del Miur, anche volendo lasciare il tetto a 24 alunni».
Ha ragione la scrittrice Viola Ardone a sostenere che gli studenti e le studentesse «vogliono tornare in classe perché è il loro posto nel mondo», ma anche che essi, dopo aver imparato a fare la «tara tra il desiderabile e il reale e ad accontentarsi del possibile», prima o poi ci chiederanno: «quanto si è fatto, nel corso di un anno, per tutelare noi, i nostri bisogni, i diritti di tanti? Quanto si sarebbe potuto fare? Nella piramide dei bisogni e dei diritti del nostro Paese, quale posto occupiamo noi»?
La risposta a queste domande è ineludibile, «perché non credano di essere stati truffati in virtù della loro eccessiva arrendevolezza», ma il coro è unanime: «poco è stato fatto» (Chiara Saraceno). «Niente… Nulla… Nemmeno un tentativo… Nessuno di coloro che dovrebbero pensare al nostro bene, ha fatto qualcosa per noi » – tuona Paola Mastrocola – con l’aggravante che questo mese finale in aula, visto da Viola Ardone come «un simbolico risarcimento» e «una grande iniziativa di solidarietà sociale», «il segno di un’attesa che si compie» e «una forma di salvezza e di riscatto», costituirebbe invece, per la scrittrice torinese, un «gioco perverso», «una beffa, uno specchietto per allodole». Frutto di «decisioni indipendenti da riscontri scientifici che si prendono così come soffia il vento del consenso», e foriero di tale «indignazione (…) insieme a rabbia e sconcerto» da trasformare la Mastrocola in una pasionaria: «se fossi giovane e gagliarda, guiderei una protesta gigantesca. Proporrei che nessuno torni a scuola».
Fortunatamente la scrittrice torinese è in pensione perché altrimenti avrebbe potuto constatare che, molto probabilmente, si sarebbe ritrovata da sola (o quasi). Gli studenti e le studentesse dell’ultimo anno, nonostante siano già attivi politicamente nella vita scolastica e si preparino ad esercitare l’elettorato attivo nella vita del paese, si sono appena accorti del riemergere, dalla passata riforma della ‘Buona Scuola’, di quello che Gian Paolo Bortone ha ribattezzato il curriculum delle disuguaglianze, “nipotino” del portfolio delle competenze della trapassata riforma ‘Moratti’. Esso, infatti, non certificherebbe altro che le diversità economiche familiari degli studenti: quell’«imbroglio» di cui parla Lamberto Maffei e ben spiegato anche da Tommaso Montanari, Salvatore Cingari e Paolo Piccolella.
Come stupirsi però di queste “distrazioni”, se il rettore della Bocconi (Gianmario Verona), mentre loda i giovani che hanno aderito al progetto #GenerazioneEu, non si accorge della poco “docta ignorantia” presente nel loro auspicio finale, quando contrappongono la (“buona”) Europa e il Medioevo (“brutto” e “cattivo”): «Cara Europa sii più severa e meno lontana di come ti sentiamo… Individua i nuovi Pico della Mirandola e Marsilio Ficino: che ci siano loro a portarci fuori da questo Medioevo».
Vedremo se il Recovery Plan promosso da questa Europa riuscirà a vincere lo scetticismo manifestato anche da Carlo Verdelli e a sciogliere i nodi evidenziati, a partire da quello della di riduzione del numero degli alunni per classe (con conseguente assunzione dei docenti necessari). Altrimenti è chiaro che il prossimo anno scolastico scorrerà esattamente come questo che volge al termine. E che, per usare la metafora di Antonio Scurati, il “progetto Enea” avrà fallito sacrificando Ascanio per salvare Anchise. Non è detto, però, che perduri ancora la pazienza del corpo scolastico, il quale – tra genitori, studenti, docenti, dirigenti e personale ata – comprende circa venti milioni di persone: non pochi, anche per un paese politicamente e indolente e digiuno di rivoluzioni à la francese quale è l’Italia.
Solo per dire cosa vista: ieri ho transitato per una zona di Torino, San Salvario, e davanti, sul sagrato della bellissima chiesa a due campanili, una numerosa classe di bambini seduti compostamente, a regolare distanza, ascoltavano in silenzio i due insegnanti, una lezione dunque all’aperto, un sabato mattina al sole, sembrava che una parete trasparente li isolasse dal transito della strada, indisturbati solo attenti all’insegnante. Ho pensato se anche altre parrocchie avranno seguito questo esempio. La mia ha cancelli chiusi eppure vi è un ampio cortile!Altro esempio: la piccola chiesa-basilica diLourdes a sua volta è viva, porte aperte alla preghiera, messa e Rosario, fiori, candele accese, accoglienza anche per confessione, messa con lettori e canto liturgico. Visto questi esempi positivi che dimostrano come volendo si possa trovare il modo di essere collaborativi anche in difficili emergenze, sara soltanto avere cuore come istruisce il Santo Padre?
Grazie Sergio, per fortuna voci autorevoli parlano ancora di scuola, ma sembrano poco ascoltate a dire il vero; perciò è importante darne risonanza come hai fatto. Aggiungo che ai limitati adeguamenti sostanziali (spazi, tempo scuola, trasporti, competenze relazionali, strumentazione informatica…) si contrappongono impellenze burocratiche importanti, come l’educazione civica: un’intuizione interessantissima tradotta subito in scartoffia… Resistiamo!