La cura al tempo del Coronavirus

Come sarebbe bello se almeno in questa Giornata mondiale del malato 2020 cogliessimo la provocazione del virus globale per interrogarci su quale sia uno sguardo davvero cristiano davanti a un'epidemia
11 Febbraio 2020

Abbiamo visto costruire a tempo di record il nuovo ospedale di Wuhan. Vediamo scorrere le immagini delle metropolitane vuote nelle grandi metropoli cinesi. Tutte le sere riconosciamo il passeggero della nave da crociera in quarantena in Giappone che fa ginnastica sul suo balconcino. Ormai ci è familiare persino il modellino che dovrebbe spiegarci com’è fatto questo dannato virus. E non c’è servizio tv che non ci mostri le tute bianche, i termo-scanner, le mascherine. Sì, le conosciamo tutte a memoria le immagini di repertorio legate al Coronavirus. Tutte a parte una: il volto di chi soffre a causa di questa malattia.

Ci avete fatto caso? Nell’overdose di informazioni che sta circondando l’emergenza sanitaria che dalla Cina fa paura a tutto il mondo, sono le storie degli ammalati l’ingrediente che fa più fatica ad emergere nei racconti. Parliamo di tutto e del contrario di tutto: delle colpe e dell’efficienza del regime comunista cinese, degli allarmismi e dei rischi di sottovalutare l’emergenza, della necessità di isolarsi dalla Cina e dei pericoli per il made in Italy se un blocco del genere dovesse andare avanti sul serio. Un minestrone che vede il principio di non contraddizione vacillare in continuazione. Parlano gli esperti. Mai visti tanti professori nei nostri telegiornali. E, per carità, probabilmente è giusto così.

Però quello per cui non sembra esserci posto è il volto umano di questa grande tragedia. Siamo così preoccupati dal possibile contagio da non avere tempo di guardare davvero negli occhi chi sta soffrendo e morendo sul serio in Cina. Lo stesso dottor Li Wenliang – il medico eroe che per primo aveva provato a rompere il silenzio sul virus ed è morto contagiato dai suoi pazienti – fa notizia più per il trattamento subito dal Partito che per il suo gesto di altruismo. E, certo, per fortuna adesso in Italia si stanno moltiplicando i gesti di solidarietà con la comunità cinese, si stigmatizzano le reazioni ghettizzanti o addirittura violente, i politici e i vip fanno a gara a farsi immortalare mentre gustano l’involtino primavera nel locale dietro l’angolo. Però il messaggio – in fondo – è che «questi cinesi» non sono mica malati. Già.

Oggi la Chiesa – nella festa della Madonna di Lourdes – celebra la Giornata mondiale del malato. Ecco, sarebbe bello se almeno le nostre comunità per un giorno si fermassero un attimo a pensare sul serio a questa ricorrenza. È vero, di Giornate ne abbiamo tante, forse troppe, anche nella Chiesa. Nascono per mettere davanti agli occhi di tutta la comunità un grande tema, ma poi finiscono per diventare il raduno annuale di una determinata «categoria». Sarebbe bello se almeno oggi non fosse così; e se almeno in questa Giornata mondiale del malato 2020 cogliessimo la provocazione del Coronavirus per interrogarci su quale sia uno sguardo davvero cristiano davanti a un evento come l’epidemia di cui tutti ci ritroviamo a parlare.

A me vengono in mente tre idee. La prima: i calendari della società civile ci propongono tante giornate e iniziative dedicate a singole malattie; iniziative lodevoli, che spesso sono occasioni importanti per sostenere la ricerca scientifica o le associazioni che si danno da fare per la cura e l’assistenza. Però l’11 febbraio ha un valore del tutto particolare: è la giornata che ci ricorda che il malato viene prima della malattia. Che dietro c’è sempre una persona. E vale la pena di ricordarlo in maniera particolare oggi, di fronte a un’epidemia che rischiamo di guardare solo attraverso i dati diffusi quotidianamente dall’Oms o i puntini illuminati nelle mappe che mostrano la distribuzione geografica dei «casi». Ci sono fratelli che soffrono e che muoiono a Wuhan; almeno oggi portiamoli singolarmente nel cuore e nella nostra preghiera.

Secondo: l’11 febbraio ci viene proposto dalla Chiesa come una giornata mondiale. E anche questa, in fondo, è una provocazione. Quando pensiamo alla salute la tentazione è sempre quella di guardare solo ai nostri malanni o a quelli delle persone che ci sono più care. Invece il ritrovarsi insieme oggi è un invito anche ad allargare il cuore. A capire che il diritto alla salute è una grande sfida globale. E se l’incubo di un virus ci fa aprire gli occhi su quanto sarebbe pericoloso abbandonare un angolo del mondo al proprio destino, dobbiamo fare sì che domani non torniamo a richiuderli di fronte ad altri fratelli che muoiono a causa di malattie meno globalmente contagiose ma che sarebbero curabili se solo credessimo sul serio al fatto che una sanità dignitosa e accessibile è un diritto di tutti.

Infine un’ultima parola su ciò che rende specifica la paura del Coronavirus: il fatto di ritrovarci davanti a una malattia fortemente contagiosa. È un’esperienza a cui non siamo più abituati, per fortuna. Ma non è un fatto così nuovo per il cristiano. Lo sapevano bene generazioni di santi che hanno donato la propria vita tra gli ammalati di peste, di tifo o di tubercolosi. Non erano pazzi suicidi, ma gente che aveva compreso che vivere l’amore di Gesù in quel momento significava non lasciare solo chi stava soffrendo e morendo. Anche a costo di poter contrarre la malattia. Certo, un eroismo del genere oggi ci fa venire i brividi. E i progressi della medicina e gli strumenti che abbiamo a disposizione oggi probabilmente rendono queste situazioni davvero un caso limite.

Ma queste figure ci ricordano lo stesso che non sta nella quarantena la salvezza dell’uomo. E che a custodirci davvero sarà sempre e soltanto la cura di chi sceglie di chinarsi sulle piaghe del fratello.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

I commenti devono essere compresi tra i 60 e i 1000 caratteri. I commenti sono sottoposti a moderazione da parte della redazione che si riserva la facoltà di non pubblicare o rimuovere commenti che utilizzano un linguaggio offensivo, denigratorio o che sono assimilabili a SPAM.

Ho letto la privacy policy e accetto il trattamento dei miei dati personali (GDPR n. 679/2016)