“Io ho un’esperienza diversa”

"Io ho un'esperienza diversa"
22 Marzo 2017

“No prof. Io ho un’esperienza diversa”. Mabel mi aveva colpito già quando erano venuti in classe quelli dell’ “OMG”. Raccontando delle loro esperienze in Perù avevano lasciato nell’aria una bella sensazione di un mondo in cui la gratuità è ancora possibile. E lei non aveva perso tempo: “Posso venire anche io sabato alla raccolta vivere?” “Con piacere – aveva risposto Luca – alle 14 all’ingresso del parco”. Oggi, il discorso è capitato sul rapporto con gli extracomunitari, partendo dal rapporto con l’Islam. Sei studenti non hanno perso tempo a rovesciare le loro paure e il loro astio, che forse poi, così tanto loro non è. Ma comunque, questo lascia in classe un aria “cattiva”. Sto cercando di trovare un modo per recuperare un clima più favorevole ad un dialogo sereno. E Mabel mi anticipa.

“No prof. Io ho un’esperienza diversa. A me non fa né paura né rabbia doverli incontrare. E’ già qualche volta che in stazione incontro sempre lo stesso marocchino. Ormai siamo quasi amici. Ieri mi ha detto: Ciao bela! Studiato ieri? E io sono rimasta colpita perché lui si ricordava che il giorno prima gli avevo detto che mi scocciava studiare per matematica, che avevo il compito. Ho sorriso e gli ho detto: Non tanto però dai forse me la cavo lo stesso. E lui: Dai, brava. Va bene. Mi ha fatto tanto piacere, che poi gli ho offerto il caffè”.

“Ma sei fuori?” Lorenzo non ci sta. “Adesso vedi che non te lo cavi più di torno e ti romperà l’anima”. E Clara è ancora più dura: “Eh, pagagli anche da mangiare, brava, così vedi quanti altri ne arrivano! E poi cosa credi che lo faccia perché sei sua amica? Lo fa solo perché così gli paghi il caffè!”

“No, ragazzi, un momento. – dico- mi sembra davvero che siate prevenuti e che per il solo fatto che uno sta lì a chiedere soldi, non ha nessuna vera attenzione agli altri?” Sto cercando un modo per uscire dalle secche della questione degli extracomunitari. E ci provo: “Posso capire che voi pensate che funzioni così, cioè che se uno ha un bisogno, pur di avere una risposta non guarda in faccia a nessuno. Ma se fosse così l’uomo sarebbe incapace di amare davvero, o solo chi ha risolto i suoi bisogni potrebbe vivere sul serio una relazione sincera e “disinteressata”.

Restano muti. Non capisco se è troppo difficile da comprendere o se ho colpito un punto inatteso. Poi dal fondo dell’aula Beatrice alza la mano. “Prof. Sa cosa mi è successo l’altro giorno? Ero all’ipermercato a fare la spesa con mia zia. Il solito parcheggiatore marocchino che conosco già da molto mi ha salutato e mi ha detto: “Ciao Bea, come sta mamma, non la vedo da un po’?” Io ci sono rimasta di sasso. Mia madre è all’ospedale da qualche giorno, niente di grave. Ma mi ha colpito che lui si ricordasse il mio nome e che di solito ci vado con mia madre a fare la spesa. Noi delle volte manco ci ricordiamo come si chiama il vicino di casa”. “Scommetto che tua madre gli dava sempre dei soldi! – irrompe dura Clara”. “Si certo – replica Beatrice –  Ma cosa centra? Non lo consideriamo sul serio come una persona che fa il suo lavoro. Magari è abusivo, o non è necessario, ma lo fa”.

Si è scatenato l’inferno. Quattro della classe contro Beatrice e Mabel. Li ho fermati subito. E ho cercato di riportare il discorso su un piano meno acceso. “Ragazzi, così non va bene. Qui la questione non è se sono stranieri o no. Qui la questione è se una persona che si trova nel bisogno è solo capace di provare a fregarci o se il suo bisogno lo spinge ad accorgersi maggiormente di noi e a cercare una qualche forma di relazione “umana” sufficientemente sincera. Quando voi avete bisogno di qualcosa chiedete, certo. Ma se la relazione con vostra madre, o vostro padre o un amico, non funziona, mica andate a chiedere a loro. Chiedete a qualcuno con cui sentite che la relazione funziona. Questo è normale”.

La campana ha ucciso le mie parole. E purtroppo sono rimasto a metà del ragionamento. Qui però provo a terminarlo. Avrei voluto dirgli che noi oggi spesso siamo abituati a pensare che ai nostri bisogni possano rispondere le istituzioni, l’organizzazione, le strutture. Ma in verità aver dato per scontato questo ha come effetto di depotenziare le relazione effettive con le persone. Un mondo di welfar “dalla culla alla tomba” non ci ha portato ad avere più relazioni e di maggiore qualità, ma a renderci sempre più individualisti, con il miraggio dell’autonomia e della libertà individuale.

Ma perché la natura ci ha dato i bisogni? Sicuramente anche per spingerci a costruire relazioni sociali. E se la soluzione di questi passa sempre più per organizzazioni impersonali e anonime abbiamo davvero messo in piedi una società più umana? Non nego i vantaggi dell’organizzazione sociale, ma quando questa diventa una forma per evitare coinvolgimenti personali e la possibilità di strutturare relazioni umane sincere qualcosa non va. Mentre invece chi è ai margini di queste “strutture e organizzazioni”, non è incluso, se vuole dare risposta ai suoi bisogni ha solo la possibilità di tessere relazioni umane significative. Ma questo oggi, spesso, a noi da fastidio, perché ci obbliga a metterci in gioco direttamente senza delegare istituzioni o organizzazioni. Ci sarebbe da riflettere.

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