La definizione non è un problema: “aula del silenzio” o “luogo del raccoglimento” può star bene ai fedeli di ogni confessione. L’importante è poter prevedere in ospedale, immenso alveare brulicante di sofferenza e di laboriosità, anche una celletta in cui possano trovare uno spazio dedicato alla riflessione silenziosa e alla preghiera i malati (e gli operatori sanitari, perché no) che appartengono in proporzione crescente a religioni diversa da quella cattolica.
È vero, per i cristiani ortodossi o per gli stessi buddisti è già più che adatta la cappella cattolica, ma un’attenzione della struttura sanitaria al pluralismo religioso dovrebbe cominciare a tener conto di esigenze specifiche. Il musulmano praticante, anche se allettato o claudicante, vuol tener fede ai suoi cinque momenti di preghiera al giorno: “a noi potrebbe bastare anche una stanza di due metri per tre in cui potersi raccogliere in preghiera”, osservava un imam in occasione di un costruttivo confronto con gli operatori ospedalieri. Per l’islam non è prevista la preghiera comune con le altre fedi (“possiamo assistere però a funerali cattolici di persone che abbiamo conosciuto o a cui siamo legati”, è la precisazione dei leader mussulmani) e l’aula del silenzio potrebbe essere il luogo sufficiente in cui ritirarsi, senza doversi inventare altre soluzioni avventurose – come avviene attualmente – in sale d’aspetto dei vari ambulatori o in locali inutilizzati e “concessi” in via provvisoria.
E l’aula del silenzio – così come la croce che segnala la chiesa cattolica – suggerisce anche il richiamo a quell’ineludibile domanda di senso che la stagione della sofferenza porta prepotentemente con sé e può diventare “rifugio” d’incontro e di consolazione. Anche persone dichiaratamente non credenti potrebbero qui trovare l’ambiente ideale (quanto meno non disturbato dal chiacchiericcio o dal silenzio greve che spesso caratterizza le corsie o le stanze affollate) per la loro ricerca spirituale, messa duramente alla prova da una diagnosi incerta o angosciante. E i punti d’incontro sono quelli che già avvicinano le diverse credenze religiose di fronte allo scandalo della sofferenza: come il riconoscimento della propria fragilità e creaturalità, l’affidamento nelle mani di un Altro, il bisogno di consolazione che trova risposte nell’autentica compassione o in un’empatia rispettosa, la necessità di andare oltre l’approccio puramente medico tecnico alla propria patologia.
“La malattia è aconfessionale”, confida un cappellano ospedaliero dai capelli bianchi, ed una sanità umanizzante, rispettosa delle singole credenze, potrebbe esprimersi anche nel dotare i nostri ospedali di questo spazio ad hoc in cui favorire il confronto con “Le parole ultime”, titolo di un fresco volume scritto a più mani sui problemi del “fine vita” (Edizioni Dedalo).
Sono le persone, non le stanze a “liberare” lo spirito, certo. Ma prevedere e realizzare l’aula del raccoglimento manifest