Dove possiamo andare a cercare i tratti del nuovo umanesimo cui è dedicato il prossimo convegno ecclesiale (“In Gesù Cristo un nuovo umanesimo”, Firenze, novembre 2015 )? Dove possiamo attingere per dare spessore alla parola “misericordia”, cui Papa Francesco ha dedicato il Giubileo straordinario? Nei luoghi da cui arriva la voce delle persone che soffrono e dove si cerca di arare con la speranza di seminare futuro. Ad esempio le Comunità terapeutiche.
Ce lo ricorda il documento “Dipendenze patologiche, nuove sfide e nuovi sguardi. L’impegno dei cristiani nell’accoglienza delle persone con problemi di dipendenza“. Curato da Caritas Italiana, Associazione Papa Giovanni XXIII, Casa dei Giovani, Comunità Emmanuel, Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca), Federazione Italiana Comunità Terapeutiche (Fict), Federazione Scs/Cnos-Salesiani per il sociale e Fondasione Exodus, è stato pubblicato di recente.
Tra quelli sociali, il tema delle dipendenze è tra i più impopolari per l’opinione pubblica, forse secondo solo a quello dei Rom. Per la maggior parte dei cittadini – anche cristiani – i tossici sono figure inquietanti, che “se la sono cercata” e che, prima o poi, verranno a rubarti in casa. Non scatta empatia, nei loro confronti, e men che meno pietà. Può esserci misericordia? Può esserci giustizia? (risposta più comune a questa domanda: ma se non c’è per noi, che non abbiamo fatto niente di male, loro che cosa pretendono?).
Eppure, è nel mondo ecclesiale che sono nate tante comunità che si occupano delle persone che soffrono di dipendenza (da droghe, ma non solo). Comunità che, ricorda il documento, hanno cercato di rispondere al “dovere della carità in forme consone ai bisogni e ai tempi” (come disse Paolo VI agli operatori della nascente Caritas), adeguandosi dunque ai bisogni, elaborando risposte nuove, coinvolgendo e producendo professionalità, appoggiandosi ai volontari e alle comunità, che le hanno generate. Ma che non sempre le hanno accompagnate e sostenute: non si possono negare «alcune incomprensioni e distanze». Un modo educato per dire che spesso queste esperienze sono state abbandonate, quando non contrastate, dalle comunità cristiane.
Invece proprio questi luoghi «sono stati preziosi laboratori di nuova umanità, soprattutto per la loro capacità di annunciare il Vangelo della carità e della resurrezione nelle periferie esistenziali del nostro tempo». Per questo è importante che la Chiesa nel suo insieme, compresa l'”opinione pubblica” interna, se ne riappropri, riconoscendo queste esperienze come valori che ridanno senso a tutta la comunità e possono indicare prospettive per il futuro.
Oggi infatti tutti ci confrontiamo con problemi strutturali, come «la crisi del sistema di welfare, l’incontro con il fenomeno della immigrazione anche irregolare, la fatica a mantenere aperte e vive le accoglienze e i servizi alle persone», ma anche con problemi esistenziali, come la solitudine delle persone, la mancanza di prospettive dei giovani, la fragilità delle famiglie, la povertà dei rapporti interpersonali… Proprio qui possiamo trovare esperienze e indicazioni, in queste comunità terapeutiche che da anni affrontano tutto questo.
Qui, per cominciare, sono state sperimentate forme di accoglienza, dove la visione evangelica «si è declinata in modo laico, con l’apertura a culture, tradizioni e religioni diverse, è diventata parte di un sistema pubblico-privato, ha cercato di contaminare la cultura dei territori».
Qui si è cercato un senso all’educare – e dei metodi per educare. Perché «una relazione che accoglie per costruire percorsi di liberazione non può rinunciare a educare con il passo delle persone accolte, senza forzature, senza fretta, senza pregiudizi. Ponendosi accanto con l’unica pretesa di incontrarle davvero non come le vorremmo, ma come sono, con il loro carico di limiti, errori, difficoltà, incoerenze».
Qui si è esercitata la profezia, «come tensione a leggere la storia, i luoghi e i volti con gli occhi di Dio. Superando il già fatto, detto, i pregiudizi, l’immobilismo rassicurante, il proprio peccato di omissione, il divenire “notai dello status quo” (don Tonino Bello)». Perché la profezia implica «uno sguardo che sa individuare e giudicare le ingiustizie e che sa sognare, che tiene gli occhi sulla terra e il cuore verso il nuovo che ancora non si vede. È l’impegno ad aprire vie e risposte nuove e a richiamare su questa strada l’attenzione delle istituzioni».
Qui è stata vissuta quella che Papa Francesco chiama una chiesa aperta alle periferie di tutti i tipi. «Forme significative di testimonianza cristiana possono diventare modelli nella Chiesa e avere in essa la propria fonte e il proprio fondamento, percorrendo la strada di una evangelicità esigente».
Dentro queste esperienze, insomma, si trovano tutti gli elementi per delineare il “nuovo umanesimo” su cui la Chiesa italiana è chiamata a interrogarsi. E si può riscoprire la parola “misericordia”, declinata come «criterio possibile dei comportamenti personali, comunitari e anche sociali». Qui si può ritrovare la centralità di quella dimensione educativa che sola può innescare cammini di liberazione.
Il documento ci ricorda che “Educare, non punire” è stato uno slogan cui le comunità terapeutiche si sono ispirante in questi anni. Ma non piace a molta parte dell’opinione pubblica laica e cattolica, che ormai crede più nella punizione che nell’educazione. Eppure, la misericordia comincia esattamente da qui.