La campagna referendaria, gli ultimi eventi politici, le barricate contro i rifugiati… tutto negli ultimi mesi (o forse anni?) diventa spunto per rigurgitare sui social network insulti, minacce, discorsi di odio.
Una giovane donna di 31 anni nel settembre scorso si è suicidata, perché non sopportava gli insulti che le arrivavano dai social dopo che un suo video erotico era diventato virale in rete. Il numero degli adolescenti che entrano in depressione a causa del cyberbullismo, qualcuno anche pensando o tentando il suicidio, non si conta più. Personaggi di rilievo della politica italiana twittano grevi insulti agli avversari o li urlano nei microfoni, e non se ne vergognano. Laura Boldrini – che magari non sarà un mostro di simpatia ma è pur sempre la presidente della Camera – ha pubblicato su Facebook un florilegio degli insulti che quotidianamente le arrivano da privati cittadini, non si sa bene basati su cosa.
Del problema dell’hate speech (cioè dei discorsi d’odio) in Internet e soprattutto sui social network, cioè nei luoghi in cui i cittadini si esprimono più facilmente e senza filtri, si discute da tempo, senza trovare il bandolo della matassa.
Perché le persone sono così rancorose? Che cosa guadagnano dall’offesa, spesso gratuita? Perché lo fanno non solo gli adulti nei confronti di altri adulti, ma i ragazzi nei confronti di altri ragazzi? Perché lo fano i politici, alcuni dei quali assai più dediti a offendere gli avversari, che non ad argomentare le proprie ragioni?
Uno dei temi di cui maggiormente si discute è se loro, i social network, c’entrino o non c’entrino in tutto questo. Quando sono nati, tutti abbiamo dato loro il benvenuto: si aprivano nuovi spazi di libertà, attraverso i quali i cittadini potevano esprimersi, confrontarsi con gli altri, stringere reti. Invece sono diventati ambienti in cui chiunque – dai terroristi internazionali alla casalinga del terzo piano – può provare l’ebbrezza della rissa, della violenza verbale, delle bufale diffuse ad arte per screditare chi la pensa diversamente, delle minacce senza limiti, del fare male agli altri.
La responsabilità è di chi pubblica i contenuti, non di Facebook o di You tube o di Twitter e via elencando. Eppure, questi signori che con la gestione dei nostri dati accumulano soldi e potere, qualche cosa possono fare.
Nel maggio scorso Facebook, Twitter, Google, che è proprietario di YouTube, e Microsoft hanno firmato con la Commissione europea un codice di condotta contro l’odio on line. Tra l’altro, si sono impegnati a rimuovere testi, foto e video con contenuti “discriminatori” entro 24 ore dalla pubblicazione. A sei mesi di distanza, Repubblica ha pubblicato i dati raccolti dalle associazioni e dagli enti (per l’Italia l’Unar) incaricate di monitorare il tutto, e si è visto che, per ora, l’impegno non è onorato. In cinque settimane, le associazioni hanno fatto arrivare ai big di Internet 600 denunce: contenuti antisemiti, soprattutto (23.7 per cento dei casi), e poi contro i cittadini che provengono dai Paesi poveri (21 per cento), e poi contro islamici, persone di colore, zingari. Facebook è intervenuto rimuovendo i contenuti per il 28.3 per cento delle segnalazioni, Twitter nel 19.1 per cento dei casi e YouTube nel 48.5, ma lo hanno fatto soprattutto a fronte di una segnalazione “ufficiale”, molto meno quando la segnalazione arrivava da privati cittadini. E comunque, solo nel 40 per cento dei casi le denunce sono state esaminate entro le 24 ore.
Il mondo cattolico non è esente da tutto questo. Succede che anche le bacheche di cattolici praticanti trasudino rancore e odio. Soprattutto i gruppi e i siti arroccati su posizioni di estrema conservazione religiosa, sociale e politica, hanno aggiunto al catalogo dei soggetti da odiare – che condividono con gli altri – tutti coloro che osano dirsi cattolici, nonostante la pensino diversamente da loro, e qualche volta perfino il Papa, origine e fulcro, secondo loro, di tutti i mali della contemporaneità.
È vero che viviamo nell’epoca della post verità e delle sensazioni, in cui anche leader politici di vasto seguito invitano a votare con la pancia, quindi accantonando le fatiche della ragionevolezza. Ma i cristiani hanno, nel loro Dna, due valori importanti, che definiscono il loro modo di essere presenti nella modernità, diverso da quello di altre religioni.
Il primo è la ragione. Tema tanto amato e tanto riproposto da Benedetto XVI, che a Ratisbona ha invitato a trovare «Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza».
Il secondo è il dialogo, tema caratterizzante il papato di Francesco, che continuamente invita ad abbattere muri, costruire ponti, accogliere e abbracciate.
Ragione e dialogo vanno di pari passo, si nutrono vicendevolmente.
Se poco possono o vogliono fare i big dei social network contro l’hate speech, molto può e deve fare la Chiesa, che tra l’altro è capillarmente presente in essi, con le sue varie articolazioni. Serve una nuova ecologia dei social, che valorizzi quanto di sano e fruttuoso vi esiste, ed emargini l’odio e la cattiveria. Ma serve anche un ampio impegno educativo in alleanza con la scuola e con le famiglie, che rimetta la ragione e il dialogo al centro del nostro approccio col mondo. Ne hanno bisogno le nuove generazioni, ma anche quelle adulte. Ne hanno bisogno i social network, che però sono solo il luogo in cui esprime l’odio che nasce altrove, e dunque ne hanno bisogno i luoghi di questo altrove: la politica, soprattutto, ma anche la società. E la Chiesa stessa.
Costruire una società su scelte fatte con la pancia è impossibile. Ti porta a chiedere a uno Stato estero come il Vaticano di pagare l’affitto per i musei che si trovano nel suo territorio. Ti porta a rifiutare l’accoglienza a una ventina di mamme e bambini richiedenti asilo. Ti porta a credere a qualunque bufala purché ti confermi nella tua idea.
Se sulla ragione e sul dialogo vince la pancia, davvero ci aspettano tempi malati.