Quando mi sono sposata (saranno presto quarant’anni) non avevo lavoro, e mio marito con il suo stipendio provvedeva alla famiglia e a pagare le fatture della nostra casa in costruzione. Quindi, per risparmiare i soldi dell’affitto – che non ci potevamo permettere – avevamo deciso di andare a vivere nella casa colonica in cui abitavano i nonni materni, una costruzione di inizio ‘900, in cui occupavamo due stanze che si affacciavano sulla corte comune. Il bagno era in stalla, per accedervi si attraversava tutto il portico. L’avevano tirato su, in modo molto spartano, mio marito e mio suocero, e avevano installato uno scaldabagno a legna. Non c’erano, naturalmente, termosifoni o acqua calda, e niente telefono. Ma andava bene così, avevamo la prospettiva di terminare la casa nuova, si trattava solo di un breve periodo … che durò due anni e mezzo.
Come dicevo, in altre due stanze abitavano i nonni materni di mio marito, Maria e Natale (sì, si chiamavano proprio così), con i quali i rapporti erano naturalmente molto stretti. Loro, piuttosto anziani, avevano bisogno di compagnia, di qualcuno a cui chiedere aiuto nei numerosi momenti di difficoltà (la nonna si ammalò presto di demenza), io che ero senz’auto passavo lunghe ore, specialmente durante la bella stagione, tra l’orto e il cortile col bimbo, i cani, le galline e i racconti del nonno sulla Grande Guerra e la ritirata del Piave.
La spesa era cosa del sabato pomeriggio, quando mio marito era a casa (naturalmente avevamo una sola auto, che durante la settimana serviva a lui per recarsi al lavoro) e insieme andavamo al supermercato più vicino a riempire il carrello di provviste.
I nonni, invece, usavano acquistare ciò che serviva da un venditore ambulante che passava col suo furgone ogni giovedì mattina. Vendeva un po’ di tutto, dal pane al formaggio, dallo scatolame ai detersivi, non mancavano qualche cipolla e un poco di aglio. Fare la spesa da lui era certamente una comodità, ma i prezzi erano piuttosto salati, tanto che io vi ricorrevo solo in caso di necessità, quando avevo dimenticato di rifornirmi di qualcosa di essenziale, magari il latte, o lo zucchero …
Una mattina lo avevo chiesto, alla nonna: “Nonna Maria, ma se avete bisogno di comprare molte cose, basta che facciate una lista, quando andiamo al supermercato sabato vi portiamo a casa tutto, risparmiereste molto!”
La nonna mi aveva guardato sorridendo, e aveva detto una cosa che non ho più dimenticato: “Tosa cara, gà da magnar tuti” – figliola cara, tutti devono mangiare.
Confesso che subito non avevo capito cosa intendesse. Così lei mi aveva spiegato che è responsabilità di quanti hanno il necessario non pensare solo a se stessi, e che non è corretto guardare solo al proprio risparmio, piuttosto va consentito a tutti di lavorare. “E poi – aggiungeva – consentire a tutti di stare bene fa stare bene anche noi, perché quando si diffonde la fame, le zé bote e lòra stemo male tuti (sono botte e allora stiamo male tutti, ossia la pace sociale si spezza e tutti ci rimettiamo)”.
La nonna Maria e il nonno Natale non avevano concluso la terza elementare. Lui aveva lavorato come stagionale nei campi, lei come operaia in una cartiera, e avevano cresciuto sei figli nella povertà. Ma, forse anche perché avevano attraversato due guerre mondiali, avevano il cuore aperto alla carità, sapevano distinguere ciò che ha davvero valore, e riconoscere nel bene comune la prima garanzia anche del proprio bene.
Mi sarebbe piaciuto presentare i nonni a chi, oggi, crede che le strategie contro la solidarietà siano nell’interesse del paese.
La perderanno comunque, questa guerra, in un modo o nell’altro.