Dove eravamo? La domanda è inevitabile per chi vive a Roma e ancor più per chi è impegnato nel volontariato, nell’associazionismo ecclesiale, nel Terzo settore laico o cattolico che sia. Perché purtroppo ormai dalla politica ci siamo abituati ad aspettarci di tutto, o quasi. Ma da questi mondi che per loro natura sono votati all’altruismo, alla solidarietà, alla giustizia sociale, proprio no. E invece le indagini sulla cupola mafiosa, che si è spartita Roma negli ultimi anni, ha coinvolto anche questi mondi. E ha sconvolto anche me, come tanti altri che ci lavorano.
Forse per questo un silenzio assordato e assordante per qualche giorno ha regnato sulla città: non sapevamo cosa dire, perché non ci volevamo credere.
In realtà, qualche denuncia c’era stata, sulla gestione Alemanno. Nel 2012 il Cnca (coordinamento delle comunità di accoglienza) aveva pubblicato un dossier in cui, tra l’altro, si denunciava la mancanza di trasparenza con cui venivano affidati gli appalti. Anche il Roma Social Pride e altre cooperative e associazioni si erano lamentate del fatto che c’era chi pigliava tutto e chi chiudeva o rischiava di farlo. Alemanno con precisione quasi scientifica sovvenzionava strutture improvvisate e quasi inesistenti, abbandonando quelle storiche. E, più recentemente, dopo i fatti di Tor Sapienza, la Caritas aveva scritto che quella situazione era «il risultato di anni di abbandono, ma al tempo stesso l’effetto di politiche sbagliate verso i rom e i rifugiati, senza sforzi per l’integrazione e improntate soprattutto all’emergenza, frutto di istituzioni che non collaborano, di cooperative senza scrupoli che poco hanno a cuore la sorte delle persone che le sono affidate, di territori dimenticati dalle istituzioni, in cui sono parimenti vittime italiani e immigrati». Da parte sua la diocesi di Roma era già intervenuta nei confronti dell’Arciconfraternita SS. Sacramento e di S. Trifone, anch’essa coinvolta nelle indagini, impedendole di sottoscrivere nuove convenzioni con ente pubblico e con cooperative di qualsiasi genere, in attesa di chiuderla appena i contratti saranno arrivati a conclusione.
Ma si pensava più a problemi di clientelismo, di filiere politiche privilegiate: cose ingiuste, mali di cui il nostro Paese non è mai riuscito a liberarsi e con cui è sempre riuscito a convivere, purtroppo. Anche la cooperativa 29 giugno, oggi famigerata, sembrava una di queste realtà “raccomandate”, ma che comunque lavorava bene, perché dava lavoro a 1.300 persone, molte delle quali ex detenuti, tossici, persone con storie difficili.
Invece dietro c’era molto di più, talmente tanto di più da rimanere attoniti. I poveri, i rifugiati, i Rom ridotti a strumento nelle mani della malavita per fare soldi. Inconcepibile, eppure vero.
Se la prima domanda è “dove eravamo”, la seconda è “da dove ricominciamo”?
Forse dobbiamo ricominciare dal guardarci in faccia, dallo stipulare alleanze tra gli onesti. E anche dal ricominciare a dire che gli onesti ci sono, lavorano e fanno del bene.
È l’invito che ha fatto, tra gli altri, don Stefano Aspettati, direttore del Borgo Ragazzi Don Bosco, attivissimo villaggio solidale radicato nella periferia romana, ai bordi di Centocelle. «Il mondo del sociale ha ricevuto l’ennesimo schiaffo in faccia e pozzanghere di fango addosso, per colpa di qualcuno. Gli schiaffi quotidiani sono i continui tagli, il fango è l’insinuazione che stare coi poveri è un affare, minando alla base la stessa ragion d’essere dell’attenzione agli ultimi. E il fango è peggiore perché una volta che lo hai ricevuto non va mai via del tutto», ha detto. Ma nonostante questo, «è giusto e doveroso sottolineare il bene che c’è a Roma e il tanto bene che si fa ai poveri, agli immigrati e ai Rom. E tutto ciò grazie al mondo degli operatori e del volontariato, che ogni giorno ad essi si dedicano senza alcun vantaggio personale (anzi…), grazie alle tante esperienze in cui i (pochi) contributi pubblici vengono spesi fino all’ultimo euro per i poveri e in cui le persone più in difficoltà interagiscono bene con gli altri e realizzano percorsi riusciti di inserimento lavorativo e sociale, diventando “risorsa” e non “problema”».
E dunque? E dunque bisogna allearsi, fare rete, per ottenere migliori risultati, ma soprattutto per «non cadere nella trappola di azzannarsi tra poveri per pochi spiccioli… Occorre fare rete nel mondo cattolico, superando barriere e pregiudizi; occorre fare rete con il resto delle realtà che operano nel mondo del sociale».
Vedo che il mondo del sociale nella capitale è profondamente diviso. Le realtà ecclesiali più potenti non collaborano con le altre del mondo cattolico; il mondo cattolico non collabora con quello laico e viceversa. Antichi pregiudizi, concorrenza spietata di fronte alla scarsità di risorse, commistioni politiche non facilitano.
Ma una nuova alleanza tra gli onesti, tra coloro che ci credono davvero nella solidarietà e nella dignità delle persone, forse è arrivato davvero il momento di farla. Perché se non abbiamo saputo vedere prima, almeno dobbiamo cercare di fare in modo che non si ripeta, dopo.