Chi ha ‘convertito’ Silvia?

Si dice e si scrive che Silvia Romano si sia convertita all'Islam, lasciando intendere che sia l'Islam ad averla convertita. E se così non fosse?
13 Maggio 2020

Al netto dell’odiosa propaganda e degli indicibili insulti, che giustamente verranno penalmente perseguiti, la conversione di Silvia Romano solleva una questione assai più profonda di quanto non sembri – e che ci riguarda da vicino – ben oltre il velo delle ipocrisie e delle scaramucce tra fazioni.

C’è un nervo scoperto che questa vicenda va a toccare, anzi a ben guardare più di uno: lo scontro politico tra chi si dichiara cristiano e chi musulmano non è che la superficie della questione. Richiama alla memoria guerre antiche, come la battaglia di Lepanto del 1571 o quella di Vienna del 1683, che dopo la pubblicazione della Pacem in Terris nel 1963 e l’incontro interreligioso di Assisi del 1986 speravamo rappresentassero un passato ormai sepolto per sempre. Sappiamo che non è così, perché questo sentimento alimenta ancora scontri e attentati terroristici in diversi paesi ed è stato usato come carburante per la recentissima e vicinissima guerra di Jugoslavia. Tuttavia coltivavamo l’illusione che queste dolorose vicende suscitassero in noi cristiani italiani un sentimento di condanna, piuttosto che di tifoseria.

L’aspetto più profondo su cui mi vorrei soffermare riguarda invece l’atteggiamento e la motivazione di chi lavora nel volontariato. Personalmente ho avuto la fortuna di entrare in contatto con diversi ambienti del cosiddetto Terzo settore e posso confermare quanto sia personalmente gratificante prestare la propria opera a beneficio degli altri. Tuttavia è anche molto rischioso non domandarsi con una certa frequenza il motivo di ciò che facciamo. Nella mia esperienza ho incontrato diversi volontari, anche contribuendo alla formazione di alcuni di loro, e ho potuto rendermi conto di due eccessi, ugualmente pericolosi, entro cui si colloca tutto l’arco delle motivazioni possibili.

Essenzialmente si fa volontariato per due ragioni: per sé e per gli altri. È bene essere consapevoli di entrambe e mantenerle ben in equilibrio dentro la propria testa, per non cadere in due atteggiamenti opposti: quello adolescenziale, totalmente privo di consapevolezza, di chi si lancia nelle situazioni di sofferenza perché la propria vita non ha senso (è il caso di una volontaria che incontrai a L’Aquila nel 2010, nel post-terremoto); quello del missionario che, intriso di supremazia occidentale, va in soccorso dei “selvaggi” per salvar loro la vita (vidi un atteggiamento simile in un sacerdote italiano in El Salvador, nel 2005). Chi presta servizio in queste maniere rischia non solo di vanificare un’opera in sé positiva, ma di suscitare sentimenti ostili e perpetrare stereotipi (il predominio europeo, le emozioni che prevalgono sulle competenze, ecc.). Da un punto di vista personale, chi fa volontariato senza il desiderio di incontrare autenticamente delle persone per porsi in ascolto non trarrà alcun beneficio dal suo lavoro.

Qui c’è il punto nodale, perché è proprio l’incontro con l’altro che ci converte, e non possiamo prevedere come o in che misura. Non posso attraversare mezzo mondo credendo di trovare esattamente ciò che cercavo, né di tornare esattamente come son partito; sarebbe come pensare che le persone sono state messe lì apposta per me o che prima del mio arrivo non ci sia una storia. È vero il contrario, quando ci spostiamo portiamo con noi la nostra storia e, se approdiamo in un paese di quello che un tempo si chiamava il Terzo Mondo, questa storia è intrisa di violenza e sopruso, anche se noi non ne abbiamo colpa. Chiunque ha un pregiudizio verso l’altro, l’importante è esserne consapevoli e saperlo gestire, soprattutto quando si lavora in paesi in cui il conflitto sociale è forte.

Che idea abbiamo quando parliamo di “volontariato in Africa”? Come immaginiamo questo continente che trattiamo come se fosse un unico paese, o solo come un hashtag? Quanti di noi possono raccontare l’esperienza di una prigionia o un rapimento?

A parte il doveroso e rispettoso silenzio nei confronti di una vicenda in cui non siamo coinvolti direttamente, adesso è il momento di metterci in ascolto. Lasciamoci pure stupire da ciò che non capiamo, analizziamo razionalmente i limiti e le criticità, ma con la consapevolezza e la disposizione d’animo di chi è di fronte un’esperienza nuova, dai risvolti imprevedibili.

Per il momento, sono felice che una donna che è stata reclusa per molti mesi sia tornata sana e salva a riabbracciare i suoi cari, le mie valutazioni verranno dopo. Evviva Silvia Romano libera!

2 risposte a “Chi ha ‘convertito’ Silvia?”

  1. Francesca Vittoria Vicentini ha detto:

    E’ una cosa doverosa cercare un cittadino disperso, ancora di più uno rapito, ed è cosa bella averla trovata ,pagato un prezzo per riportarla a casa,al proprio Paese, vederla sorridere. Mi chiedo invece come è possibile che una Ong mandi una così solo piena di entusiasmo, giovane volontaria sola in luoghi sImili! Dove fatti analoghi possono essere anche messi in conto dal momento che accadono a esperti, missionari preparati come Padre Dall’Olio o giornalisti. E’ stata molto coraggiosa, e determinata a sopravvivere lottando con la paura per così tanto tempo! anche La lettura Corano può essere stata provvidenziale, quale in quel dramma che stava vivendo, una cultura per tenere la mente attiva e fa pensare che in fin dei conti, Dio e’ unico di tre religioni, e può averla aiutata a vivere e sperare . Sinceramente merita ogni buon augurio che l’entusiasmo non venga meno e l’accompagni malgrado il dramma vissuto, per un progetto di vita più meditato.

  2. Dario Busolini ha detto:

    Ho apprezzato moltissimo il fatto che Vino nuovo abbia atteso un poco prima di affrontare l’argomento mentre altri media cattolici hanno subito tentato di appropriarsi della vicenda e della protagonista, salvo trovarsi poi costretti a fare dei distinguo visto l’imprevisto della “conversione”. Ugualmente apprezzo l’approccio di questo pezzo che rispetta la persona vittima del rapimento, cercando di comprenderne le sofferenze, senza sparare pregiudizi ma senza negare i problemi non facili della cooperazione e del volontariato internazionale. Polemizzare ora su di una scelta religiosa che ha bisogno di tempo e serenità per essere autenticamente confermata non serve. Serve, invece, con urgenza, chiedersi se ha senso mandare in certi posti una giovane da sola, cosa possiamo fare per proteggere di più i nostri volontari e i nostri missionari, come poter aiutare davvero i poveri senza compromettersi (troppo) con i violenti.

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