Ho molto apprezzato l’articolo di Gilberto Borghi “La tua vita non era senza scopo”, qui su Vino Nuovo, sulla vicenda di Charlie Gard. Avevo letto l’articolo della dottoressa Alessandra Rigoli, che mi aveva fatto capire come fossimo davanti a un caso di accanimento terapeutico, eppure mi rimaneva un disagio che non riuscivo del tutto a mettere a fuoco. L’ha fatto Gilberto, ricordandoci che dobbiamo sempre fare i conti con la ragione, ma anche con le emozioni – compresi il dolore e la rabbia –, e che quelle di due giovani genitori che non si arrendono alla morte dei figlio sono imprescindibili. In più, nessuno può «decidere che quella vita così com’era, compresa quella sofferenza, fosse “senza scopo”».
Ma, dando retta anche alle emozioni mie, devo ammettere che io per prima non saprei fare il passo avanti, che è quello spiegare il senso di tutto questo dolore e il senso di questa vita. Io non voglio soffrire, io non so come sopporterei una situazione come questa. Certo non ce la potrei fare da sola.
E questo mi porta a pormi un’altra domanda, forse collaterale al dibattitto suscitato dalla storia di Charlie, ma comunque importante.
C’è qualcuno che è stato vicino a quei genitori? Che ha provato ad accompagnarli nel percorso di fine vita del figlio?
Me lo sono chiesto anche perché recentemente il CESV (Centro di Servizio per il Volontariato del Lazio), ha pubblicato un testo che porta proprio questo titolo: “Percorsi di fine vita. Umanizzare il morire nelle strutture sanitarie”. Contiene i materiali di un corso di formazione per volontari organizzato dalla ASL Roma 1, dall’AVO (Associazione Volontari Ospedalieri) e dal CESV stesso. Perché sì, una delle frontiere del volontariato è proprio questa: accompagnare il malato nel proprio percorso verso il passaggio definitivo, ma anche accompagnare le famiglie, spesso devastate tanto e più del malato stesso.
È una delle caratteristiche del nostro tempo (non sono sola, in questo!) il non saper accettare la sofferenza, tanto meno la morte. E tra le conseguenze c’è che lasciamo solo chi non può più sfuggire alle domande.
Una prognosi infausta è esplosiva per il malato, ma lo è anche per le famiglie, che spesso ne vengono scosse fino alle fondamenta. C’è un prima e un dopo la morte, ma c’è anche un prima e un dopo la prognosi. È nel presente della malattia che si sperimenta tutto ciò che abitualmente cerchiamo di aggirare: la fragilità, la precarietà, il senso di impotenza. Nello stesso tempo, è nel presente della malattia che abbiamo bisogno di relazioni significative, di sperimentare che non siamo soli, di sentire che qualcuno ci sostiene. E che ci aiuta ad affrontare la paura.
Chi dà supporto al malato? Chi lo dà alle famiglie? Amici e parenti, forse. Un personale sanitario preparato, speriamo. Ma anche i volontari – come quelli dell’AVO – che fanno specifici corsi di formazione. E che in numero sempre maggiore si stanno inserendo nelle équipe interdisciplinari che operano negli hospice e nell’ambito delle cure palliative, per contribuire a un’assistenza globale dei morenti e dei loro familiari.
Non è compito dei volontari dare risposte alle grandi domande dell’esistenza. Ma la loro missione può essere molto importante proprio perché quello verso il fine vita è un percorso, cioè un tempo in cui succedono tante cose. Come scrive il camilliano Padre Arnaldo Pangrazzi, «La missione dei volontari è di essere compagni di viaggio nel crepuscolo dell’esistenza, adattandosi alle diverse situazioni e ai diversi valori professati dagli interlocutori, mantenendo l’attenzione centrata sulla persona e non sulla malattia, offrendo il dono di una presenza delicata e discreta. Il compito dei volontari, nei reparti di oncologia e cure palliative, è di adoperarsi affinché il congedo da questo mondo, pur travagliato e doloroso, sia per i morenti un’opportunità per condividere e riflettere, sanare le ferite irrisolte, esprimere le proprie volontà e dire addio alle persone care».
Il 2 giugno 2017, rispondendo a un gruppo di ragazzi che gli avevano chiesto il perché della sofferenza dei bambini, papa Francesco ha risposto: «È una domanda a cui non è possibile rispondere con le parole… Si può trovare una risposta, che non spiega il fatto, nell’amore di chi vi sta vicino. Nelle persone che vi accompagnano”. E ha aggiunto: “Anch’io mi pongo questa domanda, soprattutto quando mi capita di visitare un ospedale pediatrico. Esco con il cuore ferito. E Dio non mi risponde, ma guardo il Crocifisso. A Lui chiedo di avere qualche risposta. Ci sono nella vita domande e situazioni che non si possono spiegare. Una di queste è la sofferenza. Ma dietro a tutto questo c’è l’amore di Dio, che troverete nelle persone che vi sostengono e vi accompagnano».
Si può condividere il cammino anche se non si sanno dare spiegazioni. Chissà se i genitori di Charlie hanno qualcuno accanto a sé.