Il titolo del presente articolo viene preso in prestito dall’omonimo romanzo di Mario Desiati Spatriati, vincitore del LXXVI Premio Strega 2022. Il romanzo presenta due personaggi principali, Claudia e Francesco intorno a cui ruotano tutte le altre storie e inizia nel bellissimo comune pugliese di Martina Franca, in provincia di Taranto.
Sono loro gli spatriati degli anni 80 e 90, costretti a trasferirsi dal sud al nord in cerca di lavoro e di esperienze. Il termine spatriati viene ripreso nell’accezione pugliese di fuori classe, di senza patria e fuori dagli schemi; non indica quindi solo l’emigrazione ma la condizione antropologica del non sentirsi realmente a casa, anzi di essere fuori casa e in cammino, alla ricerca di una patria, di qualche posto dove ritrovarsi.
Viene presentato uno spaccato di realtà giovanile, di quella generazione che Alessandro Aresu chiama generazione bim bum bam tra il desiderio di esperienze radicali e la frustrazione del sentirsi paralizzati da aspettative talmente alte tanto da escludere. I protagonisti del romanzo, dopo aver fatto esperienze tra le più disparate e liminari, in giro tra la Puglia, Londra e Berlino, cresceranno insieme e si accetteranno per quello che sono, nella loro identità e senza fingimenti.
Al di là del genere letterario più o meno entusiasmante, ciò che colpisce in questo romanzo è la strada che Claudia e Francesco intraprendono per capire chi sono: quella del proprio desiderio e dell’amore per la propria identità. Escono e per certi versi si perdono, fanno scelte non convenzionali, ma alla fine tornano a casa.
Sembra riecheggiare l’esperienza del figlio minore della parabola del Padre misericordioso raccontata dal Vangelo di Luca (cap.15), il quale esce di casa e solo dopo aver sperimentato l’eccedenza del suo desiderio dinanzi a ciò che faceva, torna a casa dal Padre, e ritorna trasformato e arricchito dall’esperienza fatta fuori casa.
Ecco i personaggi del romanzo di Desiati, in eterno trasloco, che si sentono accolti senza conoscere nessuno e che nella quinta parte del romanzo vivono il sehsucht, ossia la nostalgia di un desiderio non ancora realizzato o forse irrealizzabile ma proprio per questo vero e spinta vitale che rimette in moto le trame e le relazioni.
La corporeità diventa una casa momentanea, l’unico appiglio vero ma anonimo, insieme al colore violetto dello Ionio con cui Claudia guarda il cielo di Berlino, insieme al suo nuovo compagno Andria il cui nome gli ricordava la sua casa in Puglia. Andria parla però in tedesco e il suo vecchio amico Francesco aveva preso la talare, iniziando una esperienza in Seminario ma solo per fuggire dalla sua famiglia e dalla sua identità.
Tutti nel romanzo sono in fuga da qualcosa o da qualcuno e vivono nel torschlußpanik, ossia nella paura di non raggiungere mai un obiettivo. Alla fine Claudia e Francesco si ritrovano e lo fanno partecipando insieme alla S. Messa per cercare il cuore della nostra infanzia, perché la religione che si impara da bambini influenzerà tutta la vita chiedendo a Dio di stare insieme per sempre.
M. Heidegger diceva che un viaggio può ritenersi completo solo se ritorni al suo punto di inizio, ed ecco che Francesco ritorna a vivere nei trulli dei suoi nonni, in Puglia e suo padre andrà a trovarlo ma solo per lamentarsi per aver preso pochi voti alle elezioni comunali; contrariamente alla parabola del Padre misericordioso in cui è il figlio a tornare a casa dal Padre, nel romanzo vi è una visione rovesciata: il figlio Francesco sembra più maturo di suo padre rimasto a casa ma centrato solo su di sé.
Ho bisogno di dare materia all’amore, così dice Francesco nel penultimo paragrafo del romanzo ricordando che nel dialetto pugliese non esiste il termine amore ma solo voler bene (bbun), mentre esiste se associato al sapore e al gusto dei cibi. Per esempio se un frutto non ha amore, significa che è insipido. In dialetto l’amore può essere solo mangiato, può solo essere gustato.
Ecco la generazione che spesse volte e con molta superficialità condanniamo a partire dai nostri farisaici moralismi che classificano le persone in buoni e cattivi, una generazione che ha dovuto fare i conti con le fragilità dei propri padri e che a denti stretti ha dovuto cercare uno spazio nel mondo per essere sé stessi. Una generazione di spatriati, sicuramente, ma che ha avuto il coraggio di tornare a casa, dispesi sul prato della propria campagna, a cantare canzoni e a recitare versi più vecchi di noi, fuori dal tempo e con l’illusione di essere salvati.