Gli occhi. Soprattutto gli occhi mi hanno colpito. C’era un guizzo, una luce. Non li avevo mai visti così.
Liuba ha avuto il coraggio di seguirmi per cinque anni. La terza lezione del primo anno, mentre uscivo dall’aula, esclamò: “se sapevo che religione era così la facevo anche alle medie”. Io feci finta di non sentire. Avevo già informazioni sulla sua storia con la religione. I suoi genitori, atei dichiarati, l’avevano esonerata alle elementari e alle medie. Già in terza elementare, da fuori dell’aula, sentiva cantare e ridere; silenzi intensi e la voce dolce e sicura della maestra di religione. Ed era incuriosita, invidiosamente incuriosita. Aveva chiesto più volte alla mamma di poter rimanere in classe. “Quando sarai grande ti farai la tua idea su queste cose, senza che nessuno ti abbia indottrinato”. E la parola della mamma era “vangelo” per lei.
Poi, all’inizio delle superiori, aveva contrattato con mamma che avrebbe provato a fare religione, e che avrebbe continuato solo se le fosse piaciuto. E così per tutti i cinque anni delle superiori ha dato credito alla sua voglia di cercare, al suo bisogno di essere aiutata a comprendersi. Già in seconda superiore aveva iniziato una relazione con un ragazzo di otto anni più grande di lei e il bisogno di dare un senso a quella vita che precocemente si era manifestata in tutto il suo potere, era cresciuto. Carina, leggiadra, femminile, non passava inosservata. E spesso mi arrivava addosso con le sue domande, sempre su un argomento: l’amore. Ma la sua ricerca era non tanto del come o del cosa, ma sul senso e sulla possibilità di credere davvero all’amore: “Ma davvero l’amore esiste?”; “Ma ci si può davvero fidare di un altro?”; “Si può capire se uno ti ama davvero?”
I suoi occhi però incorniciavano questo cercare di uno sfondo triste. Freddi, a volte duri, instancabilmente critici; soprattutto soli. E io capivo che il suo cercare non avrebbe trovato pace in qualche risposta razionale, perché sorgeva da un vuoto antico, come se il suo essere al mondo fosse casuale davvero, quindi senza senso. Così, quando l’anno scorso la sua storia d’amore era finita, lei aveva passato alcuni mesi davvero vuoti. Un giorno, mentre discutevamo del valore della coscienza, aveva trovato un filo di energia per dichiarare il suo pantano interiore: “Prof. tanto che serve chiedersi che senso hanno queste cose. Non c’è. Non c’è nulla. La vita è solo sé stessa, non serve mascherarla per renderla più bella. E’ solo questa, non c’è nulla di più”. Quel filo di sorriso che qualche volta aveva fatto capolino nei due anni prima era morto e i suoi occhi erano proprio spenti.
Martedì scorso ho in programma un video, sulle diverse forme della religiosità post-moderna. Una ventina di minuti, con alcuni personaggi ed esperienze che cercano di mostrare atteggiamenti diversi nel cercare un senso: dogmatismo, dubbio sistematico, fiducia, emozionalismo, indifferenza. Già sui commenti della prima esperienza Liuba è molto reattiva: “Se uno dice che è meglio morire a vent’anni divertendosi che a sessanta in un letto vuol dire che una domanda se l’è fatta e ha capito che non c’è risposta sensata”. Poi l’affondo con la suora che è entrata a quindici anni in convento: “Ma come fa una a dire che vuol dare la gioia di vivere ai giovani, se nemmeno conosce nulla della vita”. Però il suo tono di voce tradisce un’invidia malcelata, per la evidente serenità della suora.
Poi un gruppo di giovani che in piazza Navona a Roma annunciano l’amore di Dio con toni a dir poco propagandistici, con il chiaro intendo di “vendere” Dio: “Ma prof. questo sono fuori come dei balconi. Io mi stupisco davvero come possano esistere delle persone del genere. Ma questi non sono mica normali. Se uno mi avvicina per strada e mi dice che Gesù mi ama, io gli rido in faccia, ma andiamo!”. Poi, infine, un gruppo di giovani volontari del Cottolengo di Torino, che con semplicità e serena ironia raccontano cosa vuol dire per loro fare volontariato. Mi aspetto che Liuba li frantumi. Per questo la osservo mentre il video va.
E dopo un po’ qualcosa succede: la bocca si apre in un mezzo sorriso, gli occhi incollati e finalmente accesi. E una lacrima fa capolino e trabocca sulle labbra. Alla fine del racconto accendo la luce per discutere. Lei si nasconde. Per fortuna la classe parte in quarta e la discussione si accende. Ma io non la perdo d’occhio. E alla fine alza la mano: “Ma prof. davvero esistono persone così? Che belle che sono”. “Liuba, come mai ti piacciono questi?”. “Sono veri. Non se la raccontano, si vede. Sono felici di quello che fanno. Non ci guadagnano nulla e lo fanno perché davvero lo sentono”. La campanella è inesorabile!! E ci restituisce al clima della abituale aula, strappandoci dalla sensazione che qualcuno ha capito come si fa a vivere bene.
Esco dall’aula e Liuba mi aspetta in corridoio. Mi si affianca e: “Prof. dove l’ha preso questo video?”. “l’ho fatto io, ho messo insieme pezzi trovati in qua e in là. Ma se lo vuoi te lo passo”. “No, no grazie, ma era per chiedere”. “Mi fermo e la guardo negli occhi: “Ti sei accorta che sorridi e i tuoi occhi si sono accesi?”