Oggi ho tre ore. In terra ci sono 10 cm di neve. Abbastanza perché molti studenti siano assenti, ma non abbastanza perché la scuola chiuda. Sta di fatto che in una classe ho un solo studente. Ecco, abbiamo raggiunto la tanto agognata personalizzazione della didattica (nella accezione della riforma Berlinguer) o individualizzazione dei percorsi formativi (in quella della riforma Moratti)!
“Ah, prof. Sono da solo – mi accoglie con un’espressione tra il divertito e l’annoiato”. Enrico è biondino, magro, con due occhi neri profondi che sporcano il viso di un po’ di tristezza. Quasi intenerisce. Ma in classe non è tra quelli più visibili. Abbastanza interessato, abbastanza sveglio, ma anche abbastanza regolare. Tanto da non lasciare abbastanza tracce per farsi cogliere in qualche caratteristica che lo contraddistingua. Nell’ultimo scrutinio gli abbiamo dedicato non più di 20 secondi. Al primo quadrimestre ha solo due materie sotto. Abbastanza nella normalità. Il prototipo dello studente che, non facendo nessun problema, per la scuola resta abbastanza non identificato.
“Ma quando hai visto che eri solo – gli dico – non hai pensato a farti venire a prendere da casa?” La butto li, solo per riuscire a capire come sta stamattina. E lui invece mi apre un mondo. “Eh, prof. Non c’è nessuno che mi può venire a prendere. Mia madre lavora fino all’una, mio padre abita a Bologna”. “Già, i tuoi sono separati”. “Sì. E … meglio così! Quando c’era ancora mio padre in casa, c’era sempre casino e si litigava tutti i giorni. Almeno adesso si respira”.
“Ah, mi spiace! Ma davvero stai meglio se i tuoi sono separati?”. “Bèh, meglio non lo so. Però … mia madre almeno non è sempre “fuori” come prima. Tanto io mi sentivo solo anche prima. Cioè solo … non lo so. Mi sentivo … boh … come se nessuno mi vedesse davvero. E adesso è uguale, ma almeno loro non litigano. E io a pomeriggio posso fare quello che voglio”. “Cosa vuol dire quello che vuoi? Tua madre non ti dice nulla?” “Mia madre lavora anche a pomeriggio. A volte viene la zia, quando può. Oppure la vicina di casa, ma questa è una palla “mondiale”. Io le dico che ho da studiare e mi chiudo in camera. Così non rompe”. “Insomma passi molto tempo da solo, mi sembra”. “Solo?, Si, però poi sto con gli amici su whatsapp. No, un po’ studio anche, ma intanto chatto con loro”
Mi colpisce. Ma mi colpisce soprattutto che lo dica con una espressione tra il rassegnato e l’abituato. “Ma ti va bene così? Non hai bisogno di stare con gli amici, magari di avere una storia”. “Mmhh. Delle volte sì. Però meglio non rischiare”. In fondo conosce bene relazioni peggiori, perciò questa quasi “serena apatia” gli deve sembrare abbastanza accettabile. Gli dico: “E quando ti senti solo dove te la metti questa sensazione?” “Boh, prof. Me la tengo. Un po’ chatto e quando mi rompo gioco al video game. Ah! Sa che delle volte mi viene da pregare!?” “Mi prendi in giro o lo dici seriamente?” “No, prof. Sono serio. Delle volte mi viene da pregare …” “Ah, e cosa provi? Come stai quando preghi” “Mah! E’ una cosa strana, delle volte mi sembra davvero di non essere più solo, come se Qualcuno mi guarda davvero per quel che sono e sorride, perché a Lui gli va bene così. Ma delle volte non sento nulla, come se anche Lui non mi vede. Chissà, forse sono io che me la racconto e non esiste nessuno ad ascoltarmi”.
“Ma tu pensi che la tua solitudine non ci sarebbe se fossi sicuro che Dio ti ascolta e ti guarda?” “Ah, magari”. Poi silenzio. Si fa serio, butta gli occhi in terra e con un dito accarezza il profilo della cattedra. E rapito dalla malinconia dice: “No, non credo. Mi sentirei un po’ solo lo stesso, ma almeno sarei sicuro che Qualcuno, da qualche parte, mi guarda, e magari mi aspetta, mi pensa”. Come un fulmine, Danilo Dolci irrompe nella mia mente con la sua perfetta parola: “Ciascuno cresce solo se sognato”. Gli dico: “Sai cosa è il coraggio?” “Cioè, prof?” “E’ quando senti la paura di qualcosa che ti piacerebbe e, nonostante questo, ci provi ad averla. E credo che tu abbia molta voglia di provarci”. “A fare cosa?”. “A vivere, Enrico, a vivere! Niente di più e niente di meno. Io lo so che Dio ti sogna, sì, ti sogna, come nemmeno la tua migliore fantasia potrebbe fare. Perché nessuno nasce per caso. Ma per sentirlo ci vuole il coraggio di dire “io”, di dire “esisto”.
Personalizzare, individualizzare. Me lo sono chiesto anche pochi giorni fa, quando un adolescente mi chiedeva, in un incontro, se questa scuola così com’è fatta può davvero farli crescere per quello che sono, farli pensare davvero con la loro testa. Sì, la nostra scuola non funziona bene. Ma una parte importante tocca anche agli studenti. E su questo fronte il primo compito della scuola sarebbe quello di aiutarli a rimettersi in moto. Rispetto alla loro apatia, alla loro incertezza sul senso della vita, allo loro malcelata solitudine, alla loro poca stima, alla loro abitudine dell’abbastanza”, in cui anche noi, a volte, finiamo per confinarli. Nessun’altra personalizzazione è possibile, se non si riparte da qui.