Questa estate, che non arriva mai del tutto, ha almeno un vantaggio. Rende più facile leggere e tentare di capire i 31 testi di cui già ho parlato, scritti dai miei studenti come prova della prova d’esame, sul tema “I giovani e la fede”. Avevo promesso di analizzarne i contenuti e siccome le promesse si mantengono ci provo, con questo e alcuni post che seguiranno.
La prima questione che mi colpisce è la loro idea chiara sulla religione come dimensione strutturale dell’essere umano. Noi che abbiamo visto passare una secolarizzazione laicista e ci siamo battuti perché la cultura e la società riconoscessero lo status di “dimensione umana” alla ricerca religiosa del senso della vita, forse siamo sorpresi da questa generazione.
Per loro è indubitabile che “la religiosità è parte integrante della vita di ogni giorno, insita nella natura umana”. “Mi piacerebbe trovare risposte alle domande che ho, ma è inevitabile che la vita mi porti a credere o non credere”. E ancora: “Sembra che molti giovani preferiscono non farsi domande e vivere come viene, ma io sono convinta che sia solo un’apparenza”.
Ma appena si prova a dare un contenuto più preciso a questa dimensione spirituale dell’uomo ci si accorge del primo carattere specifico con cui questa generazione fa i conti. “Non ci manca l’interesse per il sacro, ma non ci identifichiamo in una religione e nei suoi credenti”. O ancora: “Per i giovani il senso e la spiritualità non sono più attese dalla Chiesa”. O anche: “Io coltivo un rapporto individuale con una dimensione divina al di fuori di una religiosità tradizionale”. Le ricerche sociologiche già da tempo hanno messo a fuoco questa tendenza: la dimensione spirituale viene recuperata, dopo la sbornia della secolarizzazione, ma si offre a queste generazioni solo fuori dalle tradizionali vie che da sempre hanno dato corpo a questa ricerca.
Non mi accoderò a coloro che piangono su questo dato o a chi cerca il modo di far rientrare dentro alla tradizione queste ricerche. Piuttosto mi colpisce come questo dato ci aiuti a capire il cambiamento postmoderno nella posizione della domanda radicale sul senso dell’uomo. “Di fronte alle domande che ci passano è giusto cercare una risposta, ma è ovvio dedurre che l’uomo non potrà mai trovare risposte a tutto e si dovrà accontentare di supposizioni, oppure ammettere di non poter trovare risposte. E a volte è bene accontentarsi delle poche risposte che troviamo senza voler sempre una spiegazione a tutto. Ci si deve arrendere al fatto che non sia poi così importante la risposta, e che sotto a tutto c’è qualcosa quasi impossibile da capire”.
In questa frase sta tutta la differenza postmoderna sulla ricerca del senso. Nel medio evo il senso della vita finiva per essere rintracciato nell’ordine stesso della vita sociale ed ecclesiale, e in esso andava tutt’al più scoperto e accettato così com’era consegnato dalla tradizione. Nell’epoca moderna invece il senso era costruito dall’uomo stesso, in primis dalla sua ricerca intelligente, e quindi andava creato in una relazione continuamente dialettica con la tradizione e le sue istituzioni. Nella post-modernità invece lo spazio per il senso si è ristretto solo alla possibilità di essere atteso, come qualcosa di impossibile da rintracciare o creare a partire dall’uomo stesso, come dono che la vita stessa forse ci vorrà offrire, ben al di là delle tradizioni.
Visto così allora lo spazio di coltivazione della dimensione religiosa resta, ma cambia profondamente. Se nel medio evo la religione diventava il luogo dell’ordine dell’essere da scoprire e accettare; se nel mondo moderno quello della dialettica feconda tra autonomia dell’uomo e trascendenza di Dio, oggi può diventare il luogo dell’offerta di esperienze di gratuità che consentono al mistero di rivelarne il senso atteso.
Questa generazione perciò sembra avere una posizione molto interessante. Quella di chi sa con chiarezza che l’uomo è limitato e che il delirio di crearsi da soli un senso finisce male, e perciò si “accontenta” restando di fronte al mistero in attesa che qualcosa si riveli. Certo c’è anche chi non resta di fronte al mistero. “Oggi il bisogno di risposte che siano concrete impedisce lo sviluppo delle religioni. Ciò che non è attuabile realmente non ha senso. Dunque ci si rassegna ad un percorso di vita di dolore senza senso”. Ma non sono la maggioranza, come invece spesso si crede.
Quando accettiamo la fatica di intercettare i deboli segnali di vita spirituale che questa generazione lascia filtrare dalle loro corazze, ci accorgiamo che per loro Dio sta dove c’è un’emozione che sa di vita, una sorpresa che smonta quanto gli adulti mostrano loro ordinariamente, una esperienza fuori asse che apre il senso gratuito dell’essere al mondo.
Questa generazione ci fa passare dal senso scoperto, (l’ordine medievale), al senso costruito (l’autonomia moderna), al senso atteso di oggi. Non la prima generazione incredula, ma la prima generazione per la gratuità.