La confessione di Giusy

"Quello che sento quando penso a Dio invece è una roba che mi riguarda, è mia, non so come dirlo… dipende anche un po’ da me”.
6 Ottobre 2014

Da quest’anno, Giusy a ricreazione mangia solo una mela. Ma come sempre Resta in classe. Il più delle volte, seduta sul davanzale della finestra, guarda fuori a rincorrere i suoi sogni impossibili. Riflessiva, un po’ introversa, sicuramente considerata “strana” dagli altri. Ma, come tutti gli introversi, dentro ha un “mondo”. Io, per regolamento, devo restare in aula durante la ricreazione. In questo inizio d’anno dove i computer non vanno, ne approfitto spesso per aggiustare i registri e i verbali. Quasi all’improvviso, ieri mattina, rientra in aula Martina. “Prof. lo sa, questa estate, sono andata a confessarmi da un prete che mi ha quasi messo paura!”, mi dice tra la rabbia e la sorpresa. “Ah, ti confessi? Bene. Perché paura”, le dico. 

“Ma prof. non si può! Questo ha cominciato a farmi un sacco di domande sulle cose che gli dicevo. Un po’ mi vergognavo di rispondergli e un po’ mi sembrava che lui fosse troppo interessato … una curiosità brutta dai. Mi son presa paura perché ho pensato che forse era un mezzo matto, di quelli che poi ti si attaccano e ti rompono le scatole”. “Ah, capisco – le rispondo – Certo il prete deve capire di cosa stai parlando e se resti sul vago può anche farti domande. Di solito però non dovrebbero mai essere domande invadenti, irrispettose o troppo personali. Il prete in quel momento è solo un intermediario tra te e Dio, attraverso cui ti arriva la certezza concreta del perdono”. “Ecco appunto – ribatte Martina – per me un prete non dovrebbe fare così, perché è stato molto invadente”. E mentre lo dice sta già armeggiando col borsellino per trovare una moneta per l’acqua dalla macchinetta. In un nano secondo, come entrata, se ne va.

Guardo verso la finestra e incrocio gli occhi di Giusy: “Sa prof. una volta anche a me succedeva così. Poi ho cominciato a confessarmi spesso, magari da preti diversi. Non ha senso prendersi paura … o anche simpatia … tanto Dio ti perdona comunque se sei sincera”. “Ah, interessante. Vuoi dire che riesci a distinguere quello che provi per il prete da quello che provi per Dio?” Ci pensa un attimo. Forse non si aspettava la domanda. “Bhè, forse sì … Il mio vecchio parroco faceva così … mi faceva mettere in ginocchio direttamente davanti al crocifisso … e lui stava dietro di me a sentire quello che io dicevo a Dio … e mi sono abituata a pensare che se vado a confessarmi è perché sento che con Dio non sono a posto … insomma il prete ti può essere simpatico o no … meglio se sé simpatico certo! Però in quel momento io voglio parlare con Dio, non col prete.”

Le dico: “Potresti dire, quindi, che l’emozione che provi per il prete non sposta il sentimento che hai per Dio?”. Ci pensa a lungo e poi: “Eh sì, più o meno è così. Per Dio è una cosa difficile da spiegare, ma è come se dal fondo del mio cuore qualcosa viene su e io decido di confessarmi, è qualcosa che è mio, che non dipende da chi ho attorno in quel momento. E’ qualcosa di bello anche quando mi dice che ho fatto una cazzata, che quasi quasi è un dolore buono che dopo ti fa stare meglio”. Resto di sasso. E la meraviglia mi si stampa sul volto. Giusy lo vede, diventa rossa, sorride e si storce un po’: “Perché mi guarda così, prof.? Cosa ho detto?”

“Sono stupito, e molto contento di quello che dici. E’ raro trovare questo sentimento oggi, soprattutto in una ragazza della tua età. E ti fa molto onore che tu possa riconoscerlo e sentirlo”. “Veramente prof, mi ci ha fatto pensare lei, con la sua domanda”, mi dice, rifugiandosi in un piccolo morso alla sua mela. Poi riprende: “In fondo non decido io se un prete mi è simpatico o no, non dipende da me. Quello che sento quando penso a Dio invece è una roba che mi riguarda, è mia, non so come dirlo… dipende anche un po’ da me”.

Lo schiamazzo di due compagne che rientrano brucia all’istante la delicatezza e l’intimità di quell’attimo. Giusy mi inchioda con gli occhi, tra la richiesta di mantenere il segreto e la certezza di essere stata capita. Le sorrido. Suona la campana ed esco. E penso.

Che bella percezione che ha Giusy. Finalmente una ragazza che sa cosa è un sentimento, e a maggior ragione vissuto per Dio. Una vera eccezione nel panorama delle mie classi, di cui ancora non mi ero accorto, pur conoscendola da tre anni. Ma soprattutto le parole di Giusy mi rimandano alla domanda che da tempo mi faccio: “Come si può favorire il passaggio dall’emozione al sentimento, nel cammino di fede?”. Perché da tempo so che oggi la fede, nei miei studenti, rinasce più nel campo dell’esperienza emozionale che non in quello razionale. Ma è davvero raro che qualcuno di loro riesca ad andare oltre la semplice emozione pur bella, che per una volta li ha fatti sentire amati da Dio.

Giusy ci è riuscita. Ha colto che un sentimento, anche quello per Dio, è intenzionale, è un volere, mentre la sola emozione al massimo ci fa sentire attraversati da qualcosa che non scegliamo noi. Che un sentimento è coltivabile, dipende un po’ anche da me, mentre la sola emozione ci “passivizza” o ci spinge ad agire per reazione. Che un sentimento è in parte razionalizzabile, lo si può guardare e tentare di comprendere, mentre la sola emozione ci “comprende”, cioè ci afferra senza poterne capire, molto spesso, la direzione e il senso. 

Come sarebbe se l’educazione alla fede sapesse “sostenere” questo passaggio nelle persone? Quanta “follia” religiosa in meno avremmo, se l’emozione del rapporto con Dio diventasse un sentimento coltivabile, stabilizzato, liberante. Che ricuce le fratture tra cuore, mente e corpo e ci ridona l’armonia di credere senza perdere l’umanità?

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